Gli Anni Venti si illudono di riportare la
spensieratezza dell’anteguerra: ma l’umanità sta, in realtà, andando incontro
alla più spaventosa crisi della storia moderna. L’America è, ormai, al primo
posto tra le potenze di rango mondiale quando gli Anni Venti stanno per finire,
e con essi l’età del jazz.
Vi erano stati segni ammonitori, ma pochi sembravano
disposti a tenerne conto. L’uomo della strada pensava che, forse, vi era
bisogno di uomini nuovi. L’uomo nuovo si chiamava Franklin Delano Roosevelt. Il
primo passo sulla strada che doveva portarlo alla Presidenza degli Stati Uniti,
Roosevelt lo compie nel 1928. Benché ancora riluttante ad assumere
responsabilità gravose, accetta quell’anno di candidarsi alla carica di
Governatore dello Stato di New York.
Franklin Delano Roosevelt vincerà le elezioni
e si candiderà alla Presidenza, nel 1929, quando sugli Stati Uniti si abbatterà
il ciclone della crisi economica, annunciato dal clamoroso crollo dei valori
azionari alla Borsa di New York del 24 ottobre 1929.
I segni premonitori vi erano stati, ma i
repubblicani non ne avevano tenuto conto. La crisi rischia di travolgere
l’America, e travolge il Governo Hoover. Terminata la Prima Guerra Mondiale
gli States avevano conosciuto uno sviluppo produttivo senza precedenti. Le
nuove industrie dell’automobile, della radio, del rayon unitamente a quelle
tradizionali dell’abbigliamento, dell’alimentazione e dell’edilizia rovesciano
sul mercato una quantità enorme di prodotti. Plenty of goods,
sovrabbondanza di prodotti: cui fa, tuttavia, riscontro un mercato inadeguato.
Soltanto il 2,3 per cento delle famiglie ha un reddito superiore ai 10.000
dollari annui, mentre metà degli americani gode di un’entrata annua che non
supera i 500 dollari. Nel decennio 1919-29 la produttività era aumentata del 75
per cento; non così i salari né, quindi, i mercati.
Il professore John K. Galbraith ha scritto:
“Sembra quasi certo che il 5 per cento della popolazione incassò, nel 1929,
approssimativamente un terzo del reddito nazionale totale. Ma, costoro non
possono comperare grandi quantità di pane. Se devono spendere ciò che incassano,
lo spendono in oggetti di lusso o sotto forma di nuovi investimenti e nuove
imprese. Sia gli investimenti sia le spese voluttuarie sono, tuttavia, soggetti
inevitabilmente a influenze più irregolari e fluttuazioni più ampie che non il
pane o l’affitto dell’operaio a 25 dollari la settimana.”
Le vendite stagnano e l’attenzione del capitale si rivolge alle Borse. In un
primo tempo i più potenti uomini d’affari, poi i piccoli risparmiatori sulla
loro scia, riversano il denaro in operazioni speculative che diventano una
specie di mania. Intanto gli iscritti ai sindacati scendono dai 5 milioni del
1920 ai 3 milioni e mezzo del 1929, la sfiducia e la protesta scelgono nuove
armi mentre, dall’altra parte, la fusione di società a prezzi inflazionati e la
costituzione di colossali holdings convogliano i profitti dalla base al
vertice concentrando in poche mani colossali guadagni. Il Big Bull Market,
il colossale mercato dei valori azionari, avviato nel 1926, raggiunge il
parossismo nel settembre del 1929. Dal giugno 1926 al settembre 1929 il valore
dei titoli cresce da 100 a
216.
Che fa, intanto, il Governo repubblicano?
l Presidente dell’epoca, Calvin Coolidge, si
vanta di non capire un bel niente di problemi finanziari. Quando Roy Young,
Governatore del Federal Reserve Board, tenta di limitare l’andazzo
attraverso regolamenti bancari più prudenti, è investito da proteste e insulti
e deve fare marcia indietro. I giornalisti lo trovano un giorno a ridere
sfogliando dei listini di borsa:
“Rido perché sono qui, solo, a cercare di impedire a 120 milioni di idioti
di fare quello che vogliono e di rovinarsi come vogliono.”
Hoover, intanto, conduce la sua battaglia elettorale con questo slogan:
“Altri quattro anni di prosperità!”
Viene eletto. nel marzo del 1929, prende il posto di Calvin Coolidge. Ma, non
può o non sa fare molto di più del suo predecessore e collega di partito: tre
anni dopo, alla vigilia delle nuove elezioni, i prezzi degli alimentari
scendono del 30 per cento, il grano crolla, più di 10.000 banche sulle 29.000
esistenti nel 1922 deve chiudere. Il pubblico ritira precipitosamente i
depositi, i fallimenti non si contano più, la fiducia è scomparsa, la
produzione industriale è scesa del 40 per cento, milioni di lavoratori sono
disoccupati, alla fame. Assumendo la Presidenza, Roosevelt chiede al Congresso “poteri
ampi come mi sarebbero dati in caso di invasione da parte di un esercito
straniero”.
Per gli americani è l’inizio di una nuova
era. B.C. e A.C. (Before Christ e After Christ, prima di Cristo e dopo Cristo)
diventano prima della crisi e dopo la crisi. Il 1929 non si ripete più, e per
questo Roosevelt, come pure il suo ispiratore economico; Keynes, saranno
attaccati dall’estrema sinistra come “stabilizzatori del sistema”. Negli
States, keynesismo designa i fautori dell’intervento statale, è quasi sinonimo
di socialismo.
Il New Deal rooseveltiano favorisce,
infatti, lo sviluppo sindacale. A Roosevelt manda il suo incoraggiamento anche
un curioso personaggio che legherà il proprio nome alla realizzazione del New
Deal, che non è proprio famoso ma neppure sconosciuto: l’economista John
Maynard Keynes.
Gli scrive:
“Egregio Presidente Roosevelt, se fallite nel vostro compito di risanare
l’economia americana, la decisione resterà affidata in tutto il mondo alla
lotta aperta tra ortodossia e rivoluzione.”
In tutto il mondo e non è un’esagerazione. Infatti, in tutti i paesi i cui
Governi hanno cercato di combattere la crisi con i rimedi classici come negli
Stati Uniti sotto la
Presidenza di Herbert Hoover (1929-1932), i disoccupati si
contano a milioni: in Germania, sotto il Cancelliere Heinrich Brüning
(1930-1932), i disoccupati all’inizio del 1932 hanno superato i sei milioni, e
questo costituisce il fattore determinante della sconfitta del movimento operaio
e dell’ascesa al potere di Adolf Hitler. Negli Stati Uniti, il potere viene
assunto non da un delirante razzista come Hitler ma da un lungimirante
democratico come Roosevelt, il quale si trova davanti il problema di 10 milioni
di lavoratori senza occupazione e riesce a risolverlo, grazie anche ai consigli
di Keynes, con il controllo federale sulle finanze, la protezione dei ceti più
deboli e grandi interventi economici. Anche, in Inghilterra, nel 1929, i
disoccupati sono 2 milioni e mezzo. Qui il Governo, in parte influenzato da
Keynes, pratica dal 1931 un’infrazione al liberismo classico mediante la
politica detta di “easy money” (denaro facile), del denaro a buon
mercato e riesce a ridurre il numero dei senza lavoro che, tuttavia, ancora nel
1936, sono sempre un milione e mezzo. Keynes non ha in tasca la soluzione,
anche perché non ha il potere. Non è, infatti, un industriale né un politico,
ma un economista, e può tutt’al più svolgere opera di consigliere dei Governi.
“Non ha senso”,
scrive,
“affermare che la disoccupazione negli Stati Uniti, nel 1932, fosse dovuta
al rifiuto ostinato dei lavoratori di accettare una riduzione dei salari
monetari oppure alla domanda ostinata di un salario reale superiore a quello
che il meccanismo economico fosse in grado di fornire.”
È evidente, continua Keynes, che esiste una disoccupazione involontaria.
L’affermazione oggi può sembrare ovvia, ma allora fece scalpore, anche perché
chi la faceva non era un comunista, ma un pacato studioso britannico. Pacato ma
deciso, al punto da replicare duramente alle polemiche dei teorici:
“Se la dottrina non è capace di spiegare queste cose reali, tanto peggio per
la dottrina.”
Ma chi era veramente Keynes, e in che cosa consistevano le sue teorie
economiche che stravolgevano tutti i fondamenti delle dottrine e degli
interessi imperanti nel mondo economico?
Si può dire che nel capitalismo classico
concorrenziale si assisteva a un’autoregolazione del ciclo, sia pure parziale e
fratturata dalle crisi ricorrenti. La grande crisi del 1929 offriva, invece,
per la prima volta alle proposte keynesiane la possibilità di incidere nella
realtà, favorendo una nuova dimensione sociale caratterizzata dalla fine
dell’economia liberista classica e dall’insorgere del fattore politico come mediazione,
guida, controllo del ciclo economico. Il pieno impiego keynesiano attraverso
l’uso massiccio dell’investimento statale e dell’assistenza pubblica scongiurò
disastri come quello del 1929.
John Maynard Keynes era nato il 5 giugno 1883 a Cambridge e a
Cambridge e a Eton era stato educato, vale a dire nelle scuole più qualificate,
per tradizione, a produrre civil servants, vale a dire funzionari dello
Stato di alto livello. I frutti di quel severo apprendistato, di quegli studi
approfonditi e appassionati non si fecero attendere. Ma va precisato che il
giovane Keynes mise molto di suo, in quel fervore di studi e ricerche, perché
neppure il sistema educativo britannico era perfetto, anzi. A ventitre anni,
nel 1906, si laurea in matematica al King’s College di Cambridge, dopo aver
studiato economia con Alfred Marshall, ed entra nella pubblica amministrazione.
Lo ritroviamo così nel civil service dell’India, allora parte
dell’impero inglese. A questo punto Keynes avrebbe potuto fare la carriera
diplomatica di molti giovani ambiziosi, diventare uno snob affettato, pieno di
frasi fatte, di arroganza nei confronti degli indigeni e di servilismo nei
rapporti con i superiori di pelle bianca. Dopo l’esperienza all’India Office,
invece, torna al King’s College come docente di economia politica: nel
1912, è nominato direttore dell’Economic Journal e nel 1913-14 fa parte
della Commissione reale delle finanze indiane. Nel 1913, pubblica la sua prima
opera di rilievo, Indian Currency and Finance, dedicata ai problemi finanziari
dell’India.
In un lavoro del genere, di solito un
funzionario inglese viene a conoscere da vicino il lato più nascosto del
governo imperiale, il meccanismo sul quale si regge lo sfruttamento delle
colonie da parte delle metropoli europee. Naturalmente questo meccanismo,
vissuto dagli alti funzionari nei club più eleganti ed esclusivi, nasconde i
lati più sordidi del Governo imperiale, le abitazioni malsane degli indigeni,
le bestiali condizioni di lavoro, le fetide gabbie che servono come prigioni, i
metodi repressivi che vanno dalle bastonate sulle natiche con canne di bambù
all’impiccagione. Tutto questo sistema repressivo infonde in chi non è un
semplice snob un insopportabile senso di colpa. Ma Keynes è ancora molto
giovane, è stato educato in un certo modo a Eton e a Cambridge (nel modo, vale
a dire, confacente agli interessi della classe, anzi del gruppo dirigente
inglese) e deve risolvere i suoi problemi nell’assoluto silenzio, il silenzio
che viene imposto a ogni cittadino britannico che serva in Oriente. Keynes non
entra in gruppi politici, non sa ancora che l’impero è moribondo, ed è, anzi,
propenso a considerarlo di gran lunga migliore dei giovani imperi o governi
locali che stanno per soppiantarlo.
Non ci è dato di sapere quali fossero i più
intimi sentimenti di John Maynard quando, conclusa l’esperienza indiana, fa le
valigie e torna in Inghilterra. Certo non è stato con gli occhi chiusi, ha
visto tante cose, ha osservato anche ciò che a molti suoi connazionali più
superficiali può far comodo far finta di non vedere. E, forse, adesso inizia a
maturare in lui quel modo anticonformista di considerare i problemi
dell’economia, della società, dei popoli.
Una visione diversa da quella ortodossa, ma
non in modo violentemente rivoluzionario. Anche la maturazione di Keynes fa
pensare a qualcosa di graduale, a un accorto controllo “dall’interno” del
meccanismo economico, non alla sua repentina distruzione.
Nel 1915, lo vediamo, infatti, rientrare, sia
pure temporaneamente, nell’amministrazione statale. Nel 1919, all’indomani
della fine della Prima Guerra Mondiale, partecipa alla Conferenza della Pace in
qualità di rappresentante del Tesoro inglese. Ed è a questo punto che questo
non-rivoluzionario questo (apparentemente) grigio funzionario di Sua Maestà
Britannica inizia a rivelare quali carattere e intelligenza si nascondano sotto
l’abito di flanella grigio-scura, dietro la pettinatura accuratamente
schiacciata e divisa da una scriminatura impeccabile che sovrasta un viso magro
e glabro. A Parigi i membri delle varie delegazioni devono affrontare i
problemi della Pace nello spirito dei 14 Punti del Presidente americano Wilson,
che si propone di eliminare dall’Europa le occasioni di guerra. Ma, poiché ben
presto prevale la rapacità e l’ottusità dei circoli più oltranzisti francesi e
inglesi, si delinea la tendenza non alla pace ma alla vendetta e alla
rappresaglia sulla Germania vinta. Keynes si rende conto che a Parigi non si
stanno gettando le fondamenta di quella pace sognata da tutti i popoli, di una
pace stabile, giusta, ma di un nuovo squilibrio e, quindi, di una nuova guerra
mondiale.
Persona seria e lungimirante, Keynes si
lascia allora andare a un gesto clamoroso ma meditato e si dimette dal mandato
per manifestare il suo dissenso dalla politica del Governo inglese che cerca di
imporre alla Germania sconfitta le riparazioni di guerra più pesanti. Come
spiega subito dopo in Le conseguenze economiche della pace (in Italia
accolto favorevolmente dalla rivista dei socialisti massimalisti), ritiene che
riparazioni troppo pesanti abbiano un effetto negativo sull’equilibrio della
produzione nei paesi beneficiari. Lloyd George, Primo Ministro inglese, se ne
risentirà, ma i fatti daranno ragione a Keynes, che viene dirottato come
rappresentante del Cancelliere dello Scacchiere al Supreme Economic Council.
Anche qui non manca di dare prova del suo carattere, ridicolizzando il
Cancelliere dello Scacchiere in persona, Winston Churchill. Churchill aveva
deciso di rivalutare la sterlina e Keynes gli aveva pubblicamente dimostrato,
suffragato dai fatti, che la decisione avrebbe avuto conseguenze negative.
John Maynard Keynes inizia così a delineare la sua personale linea economica:
misure nuove, socialmente ed economicamente audaci, contro il miope interesse
immediato dei gruppi dominanti.
Ma perché questi stessi gruppi di potere
tollerano che un modesto funzionario li ridicolizzi pubblicamente e, anzi lo
richiamano non appena si profila qualche situazione gravida di incognite?
Semplice: Keynes può agire da indipendente
perché è un competente, un tecnico.
Questa competenza gli deriva dall’essersi
trovato al centro dell’azione nei momenti decisivi, mentre il pensiero
economico di quei tempi si fondava su un preteso disprezzo dei fatti, su una
(falsa) impassibilità scientifica. La tesi della neutralità della scienza viene
fieramente rivendicata, proprio in quegli anni, da un altro famoso economista
inglese, Lionel Robbins. Al contrario, Keynes è sensibile alla storia, alla
psicologia, al condizionamento che le circostanze pratiche esercitano sul
pensiero puro. Così, nel 1922, continuando la polemica contro le riparazioni di
guerra, pubblica Revisione del Trattato; e del 1925 è l’opera Le
conseguenze economiche di Mister Churchill, del 1926 La fine del
“Laissez-faire”, del liberalismo economico su cui si fondava fino allora
l’economia del capitalismo. A questi temi dedica la sua opera fondamentale, La
teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta (1936), che
per la sua importanza è stata paragonata al Capitale di Karl Marx, un
capovolgimento nelle dottrine economiche pari alla rivoluzione copernicana
nell’astronomia.
Ispirandosi alle proposte di Keynes operano
sia Roosevelt negli anni Trenta sia il Governo inglese durante e dopo la Seconda Guerra
Mondiale, quando Churchill lo chiama come esperto monetario e consulente
dell’economia di guerra e quando la commissione presieduta da Lord Beveridge
pubblica il programma dal titolo L’impiego integrale del lavoro in una
società libera, il manifesto della politica economica e sociale per il
dopoguerra.
Grazie anche a Keynes, Roosevelt salvò
l’America dalla catastrofe del 1929 e gli inglesi poterono ricostruire la loro
società duramente provata dalla guerra senza scaricare tutti i costi sulle
classi più deboli. Il successo laburista del dopoguerra è stato una prima
conferma “dei fatti” alle teorie del tranquillo “rivoluzionario” dell’economia
John Maynard Keynes.
Daniela Zini
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