“He who controls the past controls the future.
He who controls the present controls the past.”
George Orwell, 1984
“In politics, nothing
happens by accident. If it happens, you can bet it was planned that way.”
Franklin D. Roosevelt
“Chi
tace e chi piega la testa muore ogni volta che lo fa, chi parla e chi cammina a
testa alta muore una volta sola.”
Giovanni
Falcone
ai
Magistrati e alle Forze dell'Ordine, che, quotidianamente, sono impegnati nella
lotta alla criminalità organizzata.
A
chi sostiene che tanto non cambierà mai nulla, vorrei dire:
“Il
problema siamo tutti noi che non facciamo nulla.
Stabiliamo
una presenza costante o avremo una costante violenza.
Meglio
provare e non riuscire che non riuscire a provare!”
Daniela
Zini
Crediamo, veramente, di conoscere tutto ciò
che accade sul nostro pianeta?
Gli uomini che occupano uno spazio di primo
piano sulla scena politica dispongono di un
potere reale?
Il mondo degli affari è viziato da società segrete?
Molti sostengono che potenti personaggi
esercitino un controllo assoluto su tutti gli eventi mondiali.
È il problema essenziale che tratteremo in
questa inchiesta, dove si dimostra, attraverso una serie di esempi
stupefacenti, che la sorte delle Nazioni dipende, sovente, dalla volontà di
gruppi di uomini che non hanno alcuna funzione ufficiale. Si tratta di società
segrete, veri cripto-governi, che reggono la nostra sorte a insaputa di tutti.
La loro esistenza non può essere avvertita che quando un fatto imprevisto li
obbliga ad agire alla luce del sole.
Circa due anni e
mezzo prima del suo assassinio, il 27 aprile 1961, John Fitzgerald Kennedy
tenne ai rappresentanti della stampa, riuniti presso l’Hotel Waldorf-Astoria di
New York, un discorso incentrato sulla analisi e sul pericolo della Guerra
Fredda [http://www.youtube.com/watch?v=PFMbYifiXI4]
[1], tuttavia, alcuni suoi passaggi, sembrano alludere, non alla sfida acerrima
contro l’Unione Sovietica, ma a qualcosa di altro di più oscuro e di più
pericoloso.
“[…]
La stessa parola “segretezza” è ripugnante in una società libera e aperta; e noi, come popolo, siamo intimamente e
storicamente contrari alle società
segrete, ai giuramenti segreti e
alle procedure segrete. Abbiamo deciso,
molto tempo fa, che i pericoli di
un eccessivo e ingiustificato occultamento di fatti pertinenti
superino, di gran lunga, i pericoli che
vengono invocati a giustificazione. […]”
La storia è costellata di
enigmi intorno alle società segrete, che si tratti di potenti organizzazioni
economiche, sociali, politiche o di clubs
privati riservati a una élite.
Pressoché tutte le civiltà sono
state, in un’epoca o in un’altra, il rifugio di queste società dell’ombra:
riunioni dietro porte chiuse, divieto di rivelare ciò che si dice all’esterno, sospetto
a ogni gesto o parola di uno dei membri...
Il mistero di cui le società segrete si
ammantano non è avulso dall’interesse che suscitano appena se ne parli.
E se si cercasse di squarciare questo
mistero?
Che ne è della sedicente influenza delle
società segrete attraverso la storia?
Sono state, sono così potenti come si
pretende?
Vi è motivo di temerle?
Tante domande alla partenza di una
appassionante incursione nel cuore delle società segrete più celebri della
storia.
In questo reportage,
solidamente documentato, penetreremo all’interno delle società segrete più
conosciute, riassumendone la storia, descrivendone i riti di iniziazione, i
segni e il linguaggio, che sono loro propri.
Se le voci che circondano le società segrete,
rispondono, in parte, alla sete di meraviglioso, che ci viene dalla nostra
infanzia, contribuiscono, troppo sovente, ad assumere un pensiero non critico,
che degenera, facilmente, in paranoia.
Dedicare una inchiesta alle società segrete
in un mondo, in cui la cultura del segreto [di Stato, scientifico, nucleare,
ecc.] viene, incessantemente, a ricordarci che, in quanto semplici cittadini,
noi restiamo fuori degli arcani di una conoscenza superiore, cui solo gli “eletti”
[capi di Stato, militari, diplomatici, spie, ecc.] possono accedere, mi è
sembrata una idea luminosa e illuminante.
Non sono, certo, la prima, tuttavia, i miei
predecessori sono stati, sovente, credibili, ma discutibili, perché, occorrendo
un inizio di cui non si aveva prova, questo è stato, sovente, su un continente
scomparso o su un disco volante.
Una delle numerose tesi ricorrenti sulle società
segrete è che
le suddette società segrete funzionino come le nostre società “reali”, di cui
rappresentano dei doppi sovversivi, critici, inaccessibili, ma anche necessari
per controbilanciare l’ordine mondiale, governato dai poteri temporali,
sensatamente trasparenti, perché eletti secondo principi democratici.
Scrive Georg Simmel:
“Le
società segrete sono, per così dire, delle repliche in miniatura del “mondo
ufficiale”, al quale resistono e si oppongono.”
L’inizio delle società segrete si perde,
necessariamente, nella rarefazione delle tracce di un passato sempre più
lontano: Grecia, Egitto dei faraoni neri, Sumer e, forse, oltre…
“In
principio era il buio.”
Sarebbe stato più comodo iniziare dalla fine,
giacché le società stesse sono alla ricerca delle loro origini.
“Poi
fu la luce.”
Allorché
si ergeva nella direzione da cui veniva la luce, l’uomo era in contatto con il
divino e le difficoltà materiali della vita, che, forse, formavano, allora, una
unica cosa, ma che sarebbero divenute, con la nascita del verbo e il risveglio
dell’uomo alla parola, i due poli della
sua esistenza.
Nessuno sa quanto tempo l’uomo sia vissuto al
riparo del dubbio neppure se ne sia stato, mai, abitato.
Ma che la sua prima parola sia stata un inno
alla natura o una espressione del suo bisogno alimentare… ben presto, l’uomo
iniziò a tentare di condividere le proprie idee con i suoi fratelli e, ben
presto, i più sottili di questi concetti richiesero più che parole: la
trasmissione dell’esperienza e, dunque, l’iniziazione.
È possibile che le prime iniziazioni abbiano
riguardato il modo di sopravvivere nella divina natura circostante. O che
abbiano trasmesso la certezza di un mondo spirituale nascosto dietro la
materia.
Nell’Antichità, i culti misterici si
svilupparono e conobbero un grande favore nel mondo greco-romano.
In seguito, il Medioevo, teatro di guerre di
religione, dette vita ai misteriosi Templari.
Nel Rinascimento, le società segrete
assunsero tutta un’altra dimensione con il leggendario ordine dei Rosa-Croce e,
soprattutto, con la nascita della Massoneria.
Il XIX secolo segna, ancora, un’altra svolta:
la proliferazione delle società segrete, che hanno, come corollario,
legittimazioni, prestiti sempre più diversificati e una attrattiva per la
razionalità scientifica.
Il periodo contemporaneo è segnato da una moltiplicazione
di società segrete, in particolare nell’era di Internet, con possibili derive
settarie a apocalittiche.
La storia delle società segrete ha una
importante influenza sulla storia. Esiste una versione ufficiale della storia,
versione detta esoterica, che tiene conto delle società segrete, perché sono,
sovente, uscite dall’ombra.
Ma ciò che questa storia non dice sono le
ragioni segrete dei loro interventi.
E, per comprenderle, è alla storia esoterica
che bisognerà interessarsi.
Queste società segrete sono, profondamente,
legate alla magia, a partire dai documenti più antichi in nostro possesso.
Vi farò la grazia, tuttavia, di farne
ricadere la colpa, come è, sovente, il caso, sui massoni, sui sionisti o su
Satana.
Andrò, subito, al cuore del problema,
esprimendomi senza ambage, senza temere di affrontare i sistemi criminali,
basati sul controllo, il potere e la manipolazione.
Un nuovo modo di considerare il mondo in cui
viviamo!
I. LA CAMORRA
La camorra è, oggi, una
grossa e grassa holding, che trae i
principali proventi dal crimine e che controlla una serie di attività non
necessariamente criminose, anche attraverso i normali canali di mediazione
sociale, con il mezzo dell’intimidazione o dell’acquisizione del consenso
politico. La camorra ha subito una evoluzione, nel secondo dopoguerra, al punto
da perdere, anche se non completamente, quelle connotazioni che l’avevano resa
nota e la distinguevano da altre manifestazioni delinquenziali come la mafia e
la ‘ndrangheta. Dopo essere stata per anni subordinata alle oligarchie
politiche locali, per ottenere appalti e controlli che hanno assunto il
carattere della semiufficialità [quali quelli sui mercati ortofrutticoli, del
pesce, delle carni, del lavoro, ecc.], la camorra, avendo, oggi, raggiunto una
sua indipendenza finanziaria, può condizionare gli antichi padroni, che alla
organizzazione criminosa sono costretti a ricorrere nei periodi elettorali, e
imporre anche a loro le sue leggi e le sue tangenti.
La camorra è un fenomeno meridionale dalle radici antiche: la sua origine
risalirebbe, infatti, alla metà del Quattrocento. Istituzione repressiva con il
crisma della semiufficialità, nel periodo borbonico, ha assunto, dal secondo dopoguerra,
le dilaganti proporzioni di una holding
della malavita organizzata, che ha esteso il suo capillare controllo sui rami
attivi della società partenopea.
Se si legge lo statuto della camorra [il frieno, come veniva chiamato], reso noto in una storica assemblea
di camorristi che si tenne, il 12 settembre 1842, nella chiesa di Santa
Caterina, a Formello, si potrà notare che molti usi, allora in vigore, siano
scomparsi, ma che, nei comportamenti dei camorristi di oggi, non è scomparso lo
spirito informatore di quell’eccezionale documento, forse l’unica “legge fondamentale”
della camorra giunta fino a noi.
Quello che si è conservato, fino ai nostri tempi, è un certo senso
dell’onore – almeno, così, lo intendono i camorristi – di fedeltà alle leggi,
che regolano la associazione criminosa o, più genericamente, una semplice
omertà.
Fondamentale, tuttavia, è una particolare diversità tra la situazione
attuale e quella che si può dire storica: mentre fino al periodo fascista la
organizzazione della camorra, a Napoli, fu, strettamente, verticistica [un capintesta e dodici capintrini o capisocietà,
quanti erano i quartieri storici napoletani], oggi la camorra è divisa in
famiglie, delle quali una sola è autenticamente napoletana [urbana], mentre
tutte le altre sono del circondario e della provincia napoletana, pur avendo,
tutte, alcune zone di Napoli, quale principale campo di operazione.
Così non esiste più, a esempio, uno degli usi fondamentali: l’olio alla Madonna, che era la
contribuzione richiesta a tutti i carcerati per tenere accesa davanti
all’immagine sacra una lampada, ma, in effetti, per dividersi tutto quello che
eccedeva quella piccola spesa e per imporre, comunque il dominio della camorra
sulla vita carceraria.
Ma se le nuove tecnologie hanno fatto cadere in disuso l’olio alla Madonna, è proprio il carcere
– e non deve essere, necessariamente, un carcere napoletano – che mantiene le
caratteristiche di “conservatorio” di certi costumi camorristici. È là che il
camorrista apprende il rispetto dovuto al suo capo, un rispetto che si
concretizza in una serie di obbedienze e servizi [un capo, in carcere, non si
rifarà mai il letto, trovando, sempre, chi è disposto a farlo per lui].
Degli antichi riti, usi e costumi della camorra vi è testimonianza in uno
dei molti volumi sulla malavita a Napoli, pubblicati da Abele De Blasio, negli
ultimi anni dell’Ottocento. De Blasio fu fondatore e direttore dell’Ufficio Antropometrico
della Questura di Napoli e, quel che più conta, seguace di Cesare Lombroso, al
quale dovette fornire, per la particolarità del suo osservatorio, molti dati,
sui quali lo studioso fondò le sue teorie di antropologia criminale.
Negli anni in cui De Blasio lavorò alla Questura di Napoli, non vi fu
cranio di camorrista che sfuggisse alle sue misurazioni, o confidenza che non
venisse, attentamente, trascritta.
Una attenzione particolare De Blasio prestò al tatuaggio dei camorristi,
al punto da darne una copiosa catalogazione: tatuaggio religioso, d’amore, di
nomignolo, di graduazione, di disprezzo, di professione, di bellezza, di data
memorabile, osceno, simbolico misto.
Sovente, il tatuaggio era indicativo della specializzazione del
camorrista e, molte volte, indicava la sua particolare devozione. Uno dei
camorristi osservati da De Blasio aveva sul torace la seguente iscrizione: “A.S.D.P. [Anima Santa Del Purgatorio] –
allicordati [ricordati] – di – me – perché io – penso a te.”
Un rituale particolare era usato per le cerimonie di ammissione alla
Società Minore [picciotto] e a quella Maggiore [camorrista], entrambe fondate
su formule prese in prestito da altri ambienti sociali e, quindi, auliche, spagnolesche
o, comunque, cortesi. Il camorrista doveva, in ogni caso, dimostrare il proprio
coraggio e, in molti casi, la propria ferocia, caratteristiche che vengono
richieste anche oggi.
Una delle prove più usuali era quella di mettere una moneta al centro di
un tavolo: il candidato doveva prenderla, mentre tutti gli altri convenuti alla
cerimonia, armati di coltello, dovevano impedirglielo colpendolo. Molte volte
la mano del candidato veniva trapassata da una coltellata.
Altre volte la prova di coraggio si svolgeva durante una zumpata, duello al coltello, che finiva,
di solito, almeno con uno sfregio al volto, quando la società non aveva deciso
che uno dei due dovesse soccombere.
Prova finale per l’ammissione al grado di camorrista era la tirata a dovere, un duello simbolico,
alla fine del quale il candidato doveva ferire all’avambraccio lo
sfidante.
Uomini e
donne della camorra sfregiati
Che cosa è la camorra?
Qualcuno potrebbe pensare all’attività,
certamente illecita, di chi guadagna indebitamente sul lavoro di altri. Il
discorso non è così semplice: il camorrista minaccia e intimidisce, e, non
sempre, per il solo guadagno; impone tasse, prende le cose altrui senza pagare.
Non solo, ma impone ad altri di commettere delitti, ne commette egli stesso,
obbligando altri a dichiararsene autori; protegge i colpevoli contro la
giustizia, esercita il proprio mestiere di camorrista su tutto, nelle vie,
nelle case, nei ritrovi, sul gioco, sul lavoro, sugli stessi delitti.
L’organizzazione più perfetta della camorra è nelle carceri e, così, quando si
crede di punire un camorrista mettendolo in galera, non si fa che dargli modo
di continuare, in maniera migliore, a esercitare l’opera sua.
Questa definizione, che mi pare corrisponda
con grande approssimazione alla realtà odierna, fu formulata, nel marzo del
1875, e pubblicata su L’opinione di
Torino. Autore ne è Pasquale Villari, uno dei patrioti fuggiti da Napoli, dopo
la rivoluzione del 1848, allievo di Francesco De Sanctis, docente di storia a
Pisa e, poi, a Firenze, esponente del positivismo in Italia, deputato della
destra, rappresentante dell’opposizione meridionale.
Sulla camorra, uno dei mali maggiori, insieme
con il brigantaggio e la mafia, nell’Italia meridionale, all’indomani
dell’unificazione, Pasquale Villari aveva, già, scritto un articolo intitolato La camorra e il progresso del popolo,
pubblicato, il 5 ottobre 1861, da La
perseveranza di Milano. Ma quel che, nel 1861, è soltanto una testimonianza
o una denuncia, quattordici anni dopo, assume i contorni di una analisi molto
più motivata, condotta con una metodologia che, chiaramente, appare
accompagnare i primi passi delle scienze sociali, tendenti a riconoscere i
contorni precisi del fenomeno e a identificarne le cause. Queste analisi sono
raccolte in un volume pubblicato, nel 1878, con il titolo Lettere meridionali. Vale la pena di leggere qualche brano,
sottolineando la carica esplosiva di certe rivelazioni per i ceti sociali
contro i quali tali denunce erano dirette.
“La
camorra”,
scrive Villari,
“non
si esercita solo negli ordini inferiori della società: vi sono anche camorristi
in guanti bianchi e abito nero, i cui nomi e i cui delitti da molti
pubblicamente si ripetono.”
Non è necessario qui notare l’attualità di
una simile affermazione.
Ma proseguiamo.
“Perché
la camorra divenga possibile, occorre che vi sia un certo numero di cittadini,
o anche una classe intera, che si pieghi alle minacce di pochi o di molti, che
siano organizzati.”
Pare di sentir parlare della Nuova Camorra
Organizzata, di Raffaele Cutolo, uno dei più temuti capi della camorra negli
Anni Ottanta.
“Una
volta che questo fatto, per qualche tempo, si avvera in proporzioni abbastanza
larghe, riesce facile assai capire in che modo la malattia si estenda a poco a
poco, e pigli forme diverse, secondo che penetra nei diversi ordini della
società. Il male è contagioso come il bene”,
sentenzia Villari,
“e
l’oppressione, specialmente quella esercitata dalla camorra, corrompe
l’oppresso e l’oppressore, e corrompe ancora chi resta lungamente spettatore di
questo stato di cose, senza reagire con tutte le sue forze.”
Sono gli stessi concetti – il fondamentale
pericolo dell’assuefazione – affermati alla televisione il 10 giugno 1982 – e,
quindi, più di cento anni dopo] dal prefetto di Napoli, Riccardo Boccia, che
parlava all’indomani della chiusura di tutti i negozi di un quartiere
napoletano, chiusura imposta dalla camorra, in ossequio alla morte di uno dei
suoi capi.
Villari identifica, fin da allora e
chiaramente, le origini sociali della camorra, come del brigantaggio
postunitario. Nella miseria estrema del popolo, nel degrado morale, nella
sopraffazione la camorra nasce “come
forma naturale di questa società”.
Che fare?
Studiare il male per cercarne i rimedi e,
quindi, innanzitutto, comprendere il fenomeno.
“E
voi, mi si dirà, avete l’ingenuità di credere”,
conclude lo scritto di Villari,
“che
in breve si può rimediare a mali così gravi e profondi? Non vedete che ci vuole
un secolo? Sì, lo vedo, ma vedo ancora che se cominceremo domani, ci vorrà un
secolo e un giorno.”
Sono trascorsi più di centocinquanta anni da
allora e la camorra, incredibilmente, è ancora padrona incontrastata di Napoli
e di quella vastissima area che la circonda, un ininterrotto agglomerato di
centri abitati, nei quali la densità della popolazione è tra le più alte del
mondo.
Come la mafia, la camorra ha una lunga
storia. Tanto che la stessa origine della parola è incerta.
Secondo alcuni deriva da un antico tema
mediterraneo, mor[r]a, che significa
gregge, banda e la radice sarebbe parallela a nur[r]a, da cui nuraghe,
mucchio di pietre. La parola esiste anche in spagnolo, ma con il significato di
rissa, lite, e, quindi, gli studiosi hanno cercato ancora, ma con esiti
incerti.
Marc Monnier, scrittore svizzero, che fu, a
Napoli, a lungo, prima e dopo il 1860, autore del noto L’Italia è terra dei morti? e di due studi fondamentali sul Brigantaggio, pubblicato nel 1862, e
sulla Camorra, apparso l’anno
successivo, dice anch’egli dell’origine spagnola della parola, derivante dal
vocabolo gamurra, che indica un rozzo
abito spagnolo. Giustamente Marc Monnier si richiama ad alcune novelle di Miguel de Cervantes Saavedra, che fu, a lungo, a Napoli per riferire
di alcune imprese prettamente camorristiche, perpetrate a Siviglia, e a una
delle sentenze di Sancho nella sua isola di Baratteria, per rilevare l’origine
spagnola della camorra. Baratteria
viene definita, in una prammatica siciliana del Cinquecento, la camorra sulle
case da gioco e, in un’altra prammatica del 27 settembre 1573, firmata dal
vicerè cardinale Gran Vela, l’estorsione ai danni di carcerati:
“A
nostra notizia è pervenuto che dentro le carceri della Gran Corte della Vicaria
si fanno molte estorsioni dai carcerati, creandosi l’un l’altro priori in dette
carceri, facendosi pagare l’olio per le lampade e facendosi dare altri illeciti
pagamenti, facendo essi da padroni in dette carceri.”
L’alto prelato immaginò un singolare mezzo
per domare la camorra: la sottopose a due tratti di corda. Ma sembra che il
supplizio non bastasse, se in un altro documento, conservato nella Biblioteca
Nazionale di Napoli, Relazione dello
stato delle carceri della G. C. della Vicaria di Napoli e delle mutazioni
fatteci e mantenute sino al presente 1674 per mezzo della missione perpetua
istituitavi dai PP. della Compagnia di Gesù, si legge:
“Nelle
prigioni i furti erano tali, che appena entrato uno nelle carceri s’eran già
venduti li vestiti e quel che è peggio si trovava spogliato senza accorgersene,
e se ben s’accorgeva non poteva parlare per timore della vita, poiché con più
facilità si facevano omicidi, avvelenazioni ec. dentro le carceri che fuori. E
grandi erano i maltrattamenti che si facevano a quelli che venivano carcerati o
per occasione di torgli qualche danaro sotto colore che ognuno, quale entra di
nuovo carcerato, li facevano pagare la lampa, o sotto altro titolo che si tace
per modestia.”
Ma i sermoni dei Gesuiti non sortirono
migliore effetto della corda del cardinale. Si narra, infatti, che uno dei
padri, intento a redimere un detenuto, parlandogli della grazia di Dio,
ottenesse per tutta risposta un poco collaborativo ed offensivo:
“Padre,
se tu mi dai un carlino per comperarne tanta salsiccia, ti darò tutta questa
grazia di Dio che tu mi hai offerta.”
Marc Monnier si domanda, poi, se non sia il
caso di far risalire l’istituzione della camorra a Napoli, perfino, alla metà
del Quattrocento, poco dopo la fondazione della Honorata Compagnia de la Guarduna, in Spagna, nel 1417. Questa
compagnia riuniva in una temibile associazione i “baratori di carte, i ladri delle vie, i tirannelli delle prigioni, e
tutti i sanguinari del paese”.
Lo statuto della Guarduna, pubblicato, integralmente, da Vittorio Paliotti, nella
sua Storia della camorra, sembra il
modello dell’organizzazione delittuosa napoletana, con le sue gerarchie e i
suoi riti.
Si può dire che, dall’arrivo degli aragonesi
a Napoli [1442], e più ancora per tutto il periodo della dominazione spagnola,
i riferimenti all’attività criminale della camorra, anche se il nome, raramente,
si trovi nei documenti, siano costanti. Non ci sembra qui il caso, né si
avrebbe lo spazio, di farne l’elenco. Converrà giungere all’epoca borbonica e
al 1820 generalmente considerato la data della costituzione ufficiale della
Bella Società Riformata [riformata sta per confederata], che prese dalle
società segrete i rituali e certe regole.
Gli esponenti della camorra dei dodici
quartieri napoletani si riunirono nella chiesa di Santa Caterina, a Formello, e,
nel corso di una solenne cerimonia, diedero un nuovo statuto alla loro
organizzazione che era retta da un capintesta,
e da dodici capintrini o capisocietà, uno per quartiere. Ogni capintrino aveva il suo segretario [contaiuolo] e poteva disporre di un
certo numero di capiparanza [capigruppo]
e di un camorrista di giornata [una
specie di ufficiale di picchetto].
La camorra era, essenzialmente, apolitica,
anche se approfittò, sempre, delle contingenze politiche. È del 1821 [l’epoca
dei moti rivoluzionari napoletani] la canzoncina che vale la pena di riferire
per il suo valore documentario:
“Nui
nun simmo cravunare
Nui
nun simmo realiste
Nui
facimmo ‘e cammurriste
Iammo
‘nculo a chillo e a chiste.”
Il riferimento alla Carboneria e ai Calderai
borbonici è evidente.
Questa organizzazione criminale si reggeva su
regole ferree [le cosiddette leggi d’onore] e su una struttura piramidale divisa,
si può dire, in due parti: una Società
maggiore, di cui facevano parte tutti i camorristi, e una Società minore, la quale comprendeva
tutti coloro che, pur essendo stati ammessi nell’associazione criminosa e pur
lavorando per essa, non ne facevano parte a pieno titolo. La Società minore era una zona di
parcheggio, o meglio, una specie di scuola di perfezionamento, nella quale si
entrava con il titolo di giovanotto
onorato per guadagnare, via via, i galloni di picciotto e di picciotto di
sgarro. La permanenza in questo stato di minorità, a volte, era molto lunga
e, soltanto alla fine di una lunga e provata milizia, dopo aver superato severe
prove, si poteva assumere il titolo ufficiale di camorrista.
Data una occhiata sommaria all’organizzazione
della camorra, torniamo alla nostra storia, che vede uno dei momenti
fondamentali dell’associazione nel 1860 e, precisamente, nei mesi che
precedettero e seguirono l’arrivo di Giuseppe Garibaldi, a Napoli, il 7
settembre. Il passaggio al nuovo stato di cose era, generalmente, auspicato in
odio alle atrocità borboniche del 1848, ma anche per quella diffusa attesa del
nuovo che prese i napoletani, come aveva preso, in quegli anni fatali, tutti
gli altri italiani.
Ma si aveva paura.
Paura che la plebe approfittasse dell’evento
e dei momenti di vuoto di potere, per abbandonarsi a saccheggi e a uccisioni,
come era avvenuto a Napoli, nel 1799, e, in misura minore, nel 1848.
E, allora, che fare?
Dalle rivelazioni di un camorrista pentito –
così lo definisce Marc Monnier: con il passare degli anni certe definizioni non
cambiano – si apprende che, al tempo dei Borbone, la setta era posta sotto la
sorveglianza della polizia. Il prefetto non si limitava a prendere la sua parte
di barattolo [il danaro estorto dai
camorristi], ma “presiedeva
all’organamento della società segreta e nominava egli stesso i capi dei dodici
quartieri, ciascuno de’ quali avea una provvisione di cento ducati al mese,
pagata sui fondi segreti della polizia. In ricambio i funzionari governativi
incaricati di vegliar alla pubblica sicurezza non sdegnavano di riempir le loro
tasche con il denaro estorto ai poveri da questi malandrini a ciò autorizzati.
Quando si divideva il carusiello [salvadanaio] un terzo dei benefici era
religiosamente portato al commissario, che a sua volta lo divideva
coll’ispettore di servizio e col caposquadra”.
In questo clima di collusione, ben si
comprende come i liberali dovessero sottostare a ogni ricatto, sotto la
minaccia di una denuncia alla organizzatissima polizia di Ferdinando II. Le
vittorie di Garibaldi in Sicilia, la caduta di Palermo, in particolare, fanno
accettare a Francesco II, da poco salito al trono, il suggerimento francese di
dare la costituzione. Proclamata la costituzione, il 25 giugno 1860, le
prigioni si aprirono e ne uscirono frotte di camorristi.
“Il loro
primo atto”,
scrive Marc Monnier che fu testimone dei
fatti,
“fu
di assalire il commissariato di polizia e di abbruciare tutte le carte; dopo di
che presero gli sbirri a colpi di bastone. Lasciati a se stessi avrebbero messo
Napoli a ferro e fuoco.”
E, qui, si impone la figura di Liborio
Romano, una delle più contraddittorie della storia napoletana, nominato in quei
giorni prefetto di polizia da Francesco II e, successivamente, ministro
dell’interno. Liborio Romano, aveva inequivocabili precedenti politici e, per
questi, era stato scelto dal re Borbone; aveva preso parte alle rivoluzioni del
1820-21 e del 1848 ed era stato, ogni volta, arrestato e imprigionato per
lunghi anni. Nel 1860, sarà ministro di Francesco II [al momento della partenza
il re gli dirà: “Don Liborio, guardatevi
il collo!”] e, poi di Garibaldi, ma, tra l’una cosa e l’altra, troverà modo
di tradire tutti, accordandosi, perfino, con Camillo Benso di Cavour nel
tentativo di provocare l’annessione di Napoli al Piemonte, prima dell’arrivo
delle Camicie Rosse; e questo, mentre aveva contatti segreti con Alexandre
Dumas, ancorato con la sua goletta, nel porto di Napoli, per preparare l’arrivo
di Garibaldi.
Liborio Romano, tuttavia, è il vero artefice
dal passaggio indolore del Regno di Napoli dai Borbone ai Savoia, nel senso
che, come ministro dell’interno del re, che andava via, e, poi, di Garibaldi,
riuscì a fare in modo che quei saccheggi, che si temevano, non avvenissero, e
che Garibaldi entrasse a Napoli, seguito solo da dodici persone, tra le quali,
lui, Liborio Romano, sotto gli occhi dei soldati borbonici, armati di tutto
punto.
E questo riuscì a farlo con l’aiuto della
camorra.
Ma cediamo la parola al testimone dei fatti,
Marc Monnier:
“Don
Liborio… immaginò una guardia cittadina composta di questi malfattori, che
sperava così arruolare nella società onesta. I picciotti di sgarro tenevano il
luogo dei birri violentemente cacciati: ogni camorrista in capo divenne
caposquadra. Fu una rivoluzione subitanea nel servizio della pubblica
sicurezza. E debbo dirlo, tale rivoluzione riuscì pienamente nei primi mesi. La
camorra non si servì soltanto della sua influenza per prevenire le rivolte, ma
impedì fino ai più piccoli delitti: non vi fu mai un sì piccol numero di furti
quanto nei primi giorni della sua sorveglianza imperiosa e diligente. La
guardia cittadina non aveva ancora uniformi, discipline, regolamenti stabiliti:
si componeva di popolani vestiti da semplici operai, armati di grossi bastoni, non
aventi altro segnale di riconoscimento fuor di una coccarda tricolore ai loro
baschetti [sic]. Pure essa si fece rispettare e temere più assai dei “feroci” a
malgrado del vestiario, delle fisionomie, della daga, del fucile, del volto
severo e truculento di questi antichi sbirri. Essa si condusse coraggiosamente,
e ciò che sembrerà più strano onestamente.”
Ma questa buona condotta durò poco:
“Addivenendo
poliziotti avevano cessato di essere camorristi, tornarono camorristi senza
cessare di essere poliziotti”,
in altri termini, si misero accanto ai
doganieri a prelevare una loro privata gabella. All’arrivo delle merci ai
varchi doganali si avvicinavano ai doganieri imbracciando i fucili e dicevano:
“Lasciate
passare, appartiene a Garibaldi.” [È roba d’o si’ Peppe.]
I doganieri erano costretti ad allontanarsi e
il tributo veniva pagato ai camorristi. Finché, un giorno il dazio incassò
soltanto 25 soldi e, in una notte, vennero arrestati 90 camorristi. Il giorno
dopo, si incassarono 3400 lire.
A infliggere quel colpo alla camorra, e, a
dichiararle, da quel momento, una guerra senza quartiere fu Silvio Spaventa,
condannato a morte dai Borbone ed esiliato dopo otto anni di galera. Era, come
il fratello Bertrando, uno studioso di filosofia, ma, fino dal tempo della luogotenenza,
accettò di essere ministro di polizia.
Il tentativo di Garibaldi di raggiungere Roma
consente al governo di dare a La Marmora tutti i poteri sulle province
meridionali e, il 24 agosto 1862, il generale proclama lo stato di assedio. Efficace
contro Garibaldi, ferito ad Aspromonte, efficace contro il partito di azione,
di cui molti esponenti furono imprigionati senza nessun ricorso all’autorità
giudiziaria, lo stato di assedio fu efficace anche contro la camorra. Non lo fu
contro il brigantaggio e, per questo, quando, nel mese di novembre, lo stato di
assedio fu tolto, si vide la necessità di prolungarne gli effetti, facendo
ricorso a una legge speciale, la legge 15 agosto 1863, n. 1409,
nota come legge Pica, dal nome del suo promotore, il deputato abruzzese
Giuseppe Pica. Come lo stato di assedio, la Legge Pica fu estesa anche
alla camorra. Ma le cose dovettero tornare al punto di partenza se, nel giugno
del 1875, il presidente del consiglio Marco Minghetti faceva approvare una
legge, composta di un unico articolo, con la quale “nelle province e nei comuni dove la sicurezza pubblica sia gravemente
turbata da omicidi, da grassazioni, da ricatti e da altri reati contro le
persone e contro le proprietà” [si intendeva operare nelle province meridionali
per stroncare mafia e camorra] furono sospese le garanzie costituzionali e i
prefetti ebbero la facoltà di inviare a domicilio coatto da uno a cinque anni,
con semplice decreto.
Come sempre, la camorra riprende forza
quando, attraverso i deputati locali, serve il potere. Per questo, a ragione, Gaetano
Salvemini definì Giovanni Giolitti “il
ministro della malavita”. Della camorra ci si serviva non soltanto al
momento delle elezioni, ma anche per muovere dimostrazioni di piazza, come
accadde nell’agosto del 1893,
a Napoli, per i fatti di Aigues-Mortes. Il 15 agosto, un
gruppo di operai italiani, che lavoravano nelle saline di Aigues-Mortes, si
scontrarono con operai francesi: sette italiani vennero uccisi e trentaquattro
gravemente feriti.
La Francia ebbe, in quella occasione, uno dei
suoi ricorrenti rigurgiti di intolleranza!
Giolitti ebbe bisogno di manifestazioni
popolari contro la Francia, che, a Napoli, furono organizzate dai camorristi,
tornati a essere agli ordini delle prefetture e delle questure nei centri del
Mezzogiorno. Malauguratamente, il 25 agosto, in via Foria a Napoli, dal
moschetto di un carabiniere partì un proiettile che uccise un ragazzo di
tredici anni. Un giornalaio mise in una cesta quel corpo e si mise alla testa
di un corteo che si diresse verso la prefettura.
Tutta la città era in sciopero e in tumulto.
Il prefetto convocò nel suo ufficio quello
che era allora il capo della camorra napoletana, Ciccio Cappuccio.
Un’ora dopo la città era tornata tranquilla.
Un colpo decisivo alla camorra lo dettero,
nel primo decennio del secolo scorso, i carabinieri e per loro il capitano
Carlo Fabbroni, che, indagando sul delitto Cuocilo, l’uccisione di un
ricettatore e della sua donna, portò le
prove, criticate e non ritenute autentiche da molti, sulle quali fu imbastita
l’accusa al processo celebrato a Viterbo, dall’11 marzo 1911 all’8 luglio 1912:
il famoso processo Cuocolo, che fu detto anche “il processo alla città”, per le collusioni che le indagini
rivelarono tra la camorra e una certa parte della società napoletana.
Quando, nel 1927, Gennaro Abbatemaggio, che
era stato il principale testimone di accusa, presentò un memoriale, nel quale
si dichiarava che tutti gli imputati erano innocenti e che le sue affermazioni
contro di loro erano solo frutto di fantasia, la camorra era quasi inesistente
a Napoli. Tanto che Mussolini sulle domande di grazia poté scrivere:
“Si
provveda, spaziando i provvedimenti nel tempo.”
La camorra ricompare a Napoli soltanto nel secondo
dopoguerra, prima occupandosi, quasi esclusivamente, del contrabbando di
sigarette, poi, estendendo il suo controllo agli appalti, al commercio del
latte, della frutta, del pesce, delle carni.
Solo più recentemente, in collegamento con la
mafia siciliana e con la malavita statunitense, arriva al contrabbando della
droga e, quindi, estende alle corse dei cavalli, alle sale da gioco e
all’edilizia il suo enorme giro di affari.
Ma questa è storia dei nostri giorni.
Una storia insanguinata da centinaia e
centinaia di morti.
Note:
[1]
President
John F. Kennedy
Waldorf-Astoria Hotel, New York City
April 27,
1961
Mr.
Chairman, ladies and gentlemen:
I appreciate very much your generous invitation to be
here tonight.
You bear heavy responsibilities these days and an
article I read some time ago reminded me of how particularly heavily the
burdens of present day events bear upon your profession.
You may remember that in 1851 the New
York Herald Tribune under the sponsorship and publishing of Horace
Greeley, employed as its London
correspondent an obscure journalist by the name of Karl Marx.
We are told that foreign correspondent Marx, stone
broke, and with a family ill and undernourished, constantly appealed to Greeley and managing
editor Charles Dana for an increase in his munificent salary of $5 per
instalment, a salary which he and Engels ungratefully labelled as the “lousiest
petty bourgeois cheating.”
But when all his financial appeals were refused, Marx
looked around for other means of livelihood and fame, eventually terminating his
relationship with the Tribune and devoting his talents full time to the cause
that would bequeath the world the seeds of Leninism, Stalinism, revolution and
the cold war.
If only this capitalistic New York newspaper had treated him more
kindly; if only Marx had remained a foreign correspondent, history might have
been different. And I hope all publishers will bear this lesson in mind the
next time they receive a poverty-stricken appeal for a small increase in the
expense account from an obscure newspaper man.
I have selected as the title of my remarks tonight “The
President and the Press.” Some may suggest that this would be more naturally
worded “The President Versus the Press.” But those are not my sentiments
tonight.
It is true, however, that when a well-known diplomat
from another country demanded recently that our State Department repudiate
certain newspaper attacks on his colleague it was unnecessary for us to reply
that this Administration was not responsible for the press, for the press had
already made it clear that it was not responsible for this Administration.
Nevertheless, my purpose here tonight is not to
deliver the usual assault on the so-called one party press. On the contrary, in
recent months I have rarely heard any complaints about political bias in the
press except from a few Republicans. Nor is it my purpose tonight to discuss or
defend the televising of Presidential press conferences. I think it is highly
beneficial to have some 20,000,000 Americans regularly sit in on these
conferences to observe, if I may say so, the incisive, the intelligent and the
courteous qualities displayed by your Washington
correspondents.
Nor, finally, are these remarks intended to examine
the proper degree of privacy which the press should allow to any President and
his family.
If in the last few months your White House reporters
and photographers have been attending church services with regularity, that has
surely done them no harm.
On the other hand, I realize that your staff and wire
service photographers may be complaining that they do not enjoy the same green
privileges at the local golf courses that they once did.
It is true that my predecessor did not object as I do
to pictures of one's golfing skill in action. But neither on the other hand did
he ever bean a Secret Service man.
My topic tonight is a more sober one of concern to
publishers as well as editors.
I want to talk about our common responsibilities in
the face of a common danger. The events of recent weeks may have helped to
illuminate that challenge for some; but the dimensions of its threat have
loomed large on the horizon for many years. Whatever our hopes may be for the
future - for reducing this threat or living with it - there is no escaping
either the gravity or the totality of its challenge to our survival and to our
security - a challenge that confronts us in unaccustomed ways in every sphere
of human activity.
This deadly challenge imposes upon our society two
requirements of direct concern both to the press and to the President - two requirements
that may seem almost contradictory in tone, but which must be reconciled and
fulfilled if we are to meet this national peril. I refer, first, to the need
for a far greater public information; and, second, to the need for far greater
official secrecy.
I
The very word “secrecy” is repugnant in a free and
open society; and we are as a people inherently and historically opposed to
secret societies, to secret oaths and to secret proceedings. We decided long
ago that the dangers of excessive and unwarranted concealment of pertinent
facts far outweighed the dangers which are cited to justify it. Even today,
there is little value in opposing the threat of a closed society by imitating
its arbitrary restrictions. Even today, there is little value in insuring the
survival of our nation if our traditions do not survive with it. And there is
very grave danger that an announced need for increased security will be seized
upon by those anxious to expand its meaning to the very limits of official
censorship and concealment. That I do not intend to permit to the extent that
it is in my control. And no official of my Administration, whether his rank is
high or low, civilian or military, should interpret my words here tonight as an
excuse to censor the news, to stifle dissent, to cover up our mistakes or to
withhold from the press and the public the facts they deserve to know.
But I do ask every publisher, every editor, and every
newsman in the nation to reexamine his own standards, and to recognize the
nature of our country's peril. In time of war, the government and the press
have customarily joined in an effort based largely on self-discipline, to
prevent unauthorized disclosures to the enemy. In time of “clear and present
danger,” the courts have held that even the privileged rights of the First
Amendment must yield to the public's need for national security.
Today no war has been declared - and however fierce
the struggle may be, it may never be declared in the traditional fashion. Our
way of life is under attack. Those who make themselves our enemy are advancing
around the globe. The survival of our friends is in danger. And yet no war has
been declared, no borders have been crossed by marching troops, no missiles
have been fired.
If the press is awaiting a declaration of war before
it imposes the self-discipline of combat conditions, then I can only say that
no war ever posed a greater threat to our security. If you are awaiting a
finding of “clear and present danger,” then I can only say that the danger has
never been more clear and its presence has never been more imminent.
It requires a change in outlook, a change in tactics,
a change in missions - by the government, by the people, by every businessman
or labor leader, and by every newspaper. For we are opposed around the world by
a monolithic and ruthless conspiracy that relies primarily on covert means for
expanding its sphere of influence - on infiltration instead of invasion, on
subversion instead of elections, on intimidation instead of free choice, on
guerrillas by night instead of armies by day. It is a system which has
conscripted vast human and material resources into the building of a tightly
knit, highly efficient machine that combines military, diplomatic,
intelligence, economic, scientific and political operations.
Its preparations are concealed, not published. Its
mistakes are buried, not headlined. Its dissenters are silenced, not praised.
No expenditure is questioned, no rumor is printed, no secret is revealed. It
conducts the Cold War, in short, with a war-time discipline no democracy would
ever hope or wish to match.
Nevertheless, every democracy recognizes the necessary
restraints of national security - and the question remains whether those
restraints need to be more strictly observed if we are to oppose this kind of
attack as well as outright invasion.
For the facts of the matter are that this nation's
foes have openly boasted of acquiring through our newspapers information they
would otherwise hire agents to acquire through theft, bribery or espionage;
that details of this nation's covert preparations to counter the enemy's covert
operations have been available to every newspaper reader, friend and foe alike;
that the size, the strength, the location and the nature of our forces and
weapons, and our plans and strategy for their use, have all been pinpointed in
the press and other news media to a degree sufficient to satisfy any foreign
power; and that, in at least in one case, the publication of details concerning
a secret mechanism whereby satellites were followed required its alteration at
the expense of considerable time and money.
The newspapers which printed these stories were loyal,
patriotic, responsible and well-meaning. Had we been engaged in open warfare,
they undoubtedly would not have published such items. But in the absence of
open warfare, they recognized only the tests of journalism and not the tests of
national security. And my question tonight is whether additional tests should
not now be adopted.
The question is for you alone to answer. No public
official should answer it for you. No governmental plan should impose its
restraints against your will. But I would be failing in my duty to the nation,
in considering all of the responsibilities that we now bear and all of the
means at hand to meet those responsibilities, if I did not commend this problem
to your attention, and urge its thoughtful consideration.
On many earlier occasions, I have said - and your
newspapers have constantly said - that these are times that appeal to every
citizen's sense of sacrifice and self-discipline. They call out to every
citizen to weigh his rights and comforts against his obligations to the common
good. I cannot now believe that those citizens who serve in the newspaper
business consider themselves exempt from that appeal.
I have no intention of establishing a new Office of
War Information to govern the flow of news. I am not suggesting any new forms
of censorship or any new types of security classifications. I have no easy
answer to the dilemma that I have posed, and would not seek to impose it if I
had one. But I am asking the members of the newspaper profession and the
industry in this country to re-examine their own responsibilities, to consider
the degree and the nature of the present danger, and to heed the duty of
self-restraint which that danger imposes upon us all.
Every newspaper now asks itself, with respect to every
story: “Is it news?” All I suggest is that you add the question: “Is it in the
interest of the national security?” And I hope that every group in America -
unions and businessmen and public officials at every level - will ask the same
question of their endeavors, and subject their actions to the same exacting
tests.
And should the press of America consider and recommend the
voluntary assumption of specific new steps or machinery, I can assure you that
we will cooperate whole-heartedly with those recommendations.
Perhaps there will be no recommendations. Perhaps
there is no answer to the dilemma faced by a free and open society in a cold and
secret war. In times of peace, any discussion of this subject, and any action
that results, are both painful and without precedent. But this is a time of
peace and peril which knows no precedent in history.
II
It is the unprecedented nature of this challenge that
also gives rise to your second obligation - an obligation which I share. And
that is our obligation to inform and alert the American people - to make
certain that they possess all the facts that they need, and understand them as
well - the perils, the prospects, the purposes of our program and the choices
that we face.
No President should fear public scrutiny of his
program. For from that scrutiny comes understanding; and from that
understanding comes support or opposition. And both are necessary. I am not
asking your newspapers to support the Administration, but I am asking your help
in the tremendous task of informing and alerting the American people. For I
have complete confidence in the response and dedication of our citizens
whenever they are fully informed.
I not only could not stifle controversy among your
readers - I welcome it. This Administration intends to be candid about its
errors; for as a wise man once said: “An error does not become a mistake until
you refuse to correct it.” We intend to accept full responsibility for our
errors; and we expect you to point them out when we miss them.
Without debate, without criticism, no Administration
and no country can succeed - and no republic can survive. That is why the
Athenian lawmaker Solon decreed it a crime for any citizen to shrink from
controversy. And that is why our press was protected by the First Amendment -
the only business in America specifically protected by the Constitution - not
primarily to amuse and entertain, not to emphasize the trivial and the
sentimental, not to simply “give the public what it wants” - but to inform, to
arouse, to reflect, to state our dangers and our opportunities, to indicate our
crises and our choices, to lead, mold, educate and sometimes even anger public
opinion.
This means greater coverage and analysis of
international news - for it is no longer far away and foreign but close at hand
and local. It means greater attention to improved understanding of the news as
well as improved transmission. And it means, finally, that government at all
levels, must meet its obligation to provide you with the fullest possible
information outside the narrowest limits of national security - and we intend
to do it.
III
It was early in the Seventeenth Century that Francis
Bacon remarked on three recent inventions already transforming the world: the
compass, gunpowder and the printing press. Now the links between the nations
first forged by the compass have made us all citizens of the world, the hopes
and threats of one becoming the hopes and threats of us all. In that one
world's efforts to live together, the evolution of gunpowder to its ultimate
limit has warned mankind of the terrible consequences of failure.
And so it is to the printing press - to the recorder
of man's deeds, the keeper of his conscience, the courier of his news - that we
look for strength and assistance, confident that with your help man will be
what he was born to be: free and independent.
Daniela Zini
Copyright © 12 febbraio 2014
ADZ
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