UOMINI DI STORIA
STORIA DI UOMINI
il diavolo bianco
dagli occhi azzurri fu il suo vero nemico
Malcolm X
MALCOLM LITTLE
[North Omaha, 19 maggio 1925 – New York, 21 febbraio 1965]
È possibile che un nero dedito alla
droga, spacciatore di marijuana e mezzano di donne da strada all’età di
diciotto anni, rapinatore a venti, dopo avere scontato sette anni di carcere,
acquisti improvvisamente coscienza del proprio abisso morale e risalga la china
fino a diventare uno dei più prestigiosi leader politici degli Stati Uniti?
Evidentemente sì.
Queste, infatti sono state le tappe
della vita di Malcolm X, nato Malcolm Little, a North Omaha (Nebraska), il 19
maggio 1925, e morto assassinato a New York, il 21 febbraio 1965.
Il padre di Malcolm, un attivista
nero seguace di Marcus Garvey che propugnava il ritorno di tutti i neri
americani nella terra natale d’Africa, era stato più volte minacciato di morte
dalla Legione Nera (l’equivalente del Ku Klux Klan negli Stati Uniti del Nord)
prima di venire trovato morto per frattura del cranio sui binari della tranvia
di Lansing, la cittadina del Michigan, dove si era trasferito. Secondo le indagini
della polizia, risultò che si era spaccato la testa cercando di prendere un
tram in corsa. Era il 1931. Negli anni che seguirono, la madre di Malcolm, una
fragile mulatta originaria delle Indie Occidentali, lottò con tutte le sue
forze per mantenere l’unità del nucleo familiare. Fu, tuttavia, sopraffatta
dalle difficoltà economiche e dall’autoritarismo dei funzionari dei vari enti
assistenziali, che cercavano di sottrarle il controllo dei figli: il suo
equilibrio psichico andò compromettendosi sempre più, finché, nel 1937, venne
ricoverata nell’ospedale psichiatrico di Kalamazoo, dove rimase per ventisei
anni.
Dopo essere stato affidato per
qualche tempo alla pubblica assistenza, Malcolm, nel 1940, venne ospitato dalla
sorellastra Ella, nella sua casa di Boston.
L’ingresso nel mondo della grande
città era destinato ad avere sul giovane nero, cresciuto in città di provincia,
effetti travolgenti. Trovato un posto come lustrascarpe alla Roseland Baltroom,
il locale notturno più frequentato di Boston, Malcolm si trovò, infatti, a
contatto con il vivacissimo ambiente che gravitava intorno alle migliori
orchestre nere in perenne tournée per il paese. Nomi di grandi jazzisti, come
Count Basie, Duke Ellington e Lionel Hampton, attiravano masse di neri deliranti
e anche un buon numero di bianchi in cerca di emozioni nei quartieri del
ghetto; spacciatori di droga e di whisky, prostitute di entrambe le razze,
sfruttatori costituivano il naturale complemento per una folla divisa da
barriere razziali che solo sotto l’insegna di un divertimento ebbro trovavano
il modo di abbassarsi.
Malcolm, preso dal ritmo frenetico
del lindy-hop (è strano quanto fresca, in quei primi anni di prosperità
intorno al 1940, fosse ancora la memoria della trasvolata di Lindbergh, tanto
da dare il nome al ballo allora più in voga) finì per abbandonare ben presto il
suo lavoro. Fattisi stirare i capelli crespi e indossato un vistosissimo zoot-suit,
l’abito d’obbligo per tutti i neri con aspirazioni mondane, si trasformò nel
più scatenato dei guappi di colore. E, facendo uno sforzo per immaginare come
dovesse apparire con la sua statura prossima ai due metri, paludato in una
giacca lunga fino alle ginocchia sopra pantaloni enormemente larghi intorno
alle gambe e strettissimi alle caviglie, i piedi calzati in affilate scarpe
arancione terminanti in una assurda punta a cupola, cappello piumato e
accessori vari, i capelli quasi rossi, che tradivano la razza del nonno materno,
impomatati in modo incredibile, non si stenta a comprendere come anni più tardi
– rinsavito – Malcolm dovesse esprimersi in modo ferocemente ironico circa gli
atteggiamenti da clown che lui stesso e la maggior parte dei suoi confratelli
di vita, in quel periodo avevano adottato.
Ma se farsesca era la cornice, di ben
altra natura era il genere di vita che conduceva: divenuto venditore di panini
sul treno Yankee Clipper, che viaggiava da Boston a New York, poi, sul Silver
Meteor per Miami e, infine, cameriere nel ristorante di Harlem Small’s
Paradise, Malcolm scivolò a poco a poco nell’abitudine della droga, già
molto diffusa tra i neri non integrati.
Cacciato dallo Small’s per avere
procurato una prostituta a un agente provocatore, nel 1943, Malcolm divenne uno
spacciatore di marijuana a tempo pieno; per resistere alla tensione iniziò, lui
stesso, a fumarne quantitativi sempre maggiori, tanto che, per sua ammissione,
dopo breve tempo non esisteva momento della giornata in cui non si trovasse
sotto l’effetto dello stupefacente.
Segnalato all’Ufficio Narcotici fu
presto braccato, così da dover sospendere il proprio traffico. Ricorrere alla
pistola, che aveva preso l’abitudine di portare sempre indosso, per iniziare
una serie di rapine fu il passo seguente compiuto da Malcolm sulla strada del
crimine.
Caduto in una trappola per la spiata
di un negoziante ebreo, Malcolm venne arrestato insieme a un altro nero e a due
donne bianche, tutti suoi complici. Mentre le ragazze ricevettero una mite
condanna, un periodo di detenzione da uno a cinque anni, la sentenza per i due
uomini di colore fu assai più severa: dieci anni di carcere. Commentando la
cosa molti anni più tardi, Malcolm avanzò il legittimo dubbio che la pena gli
fosse stata comminata più per il reato di avere infranto dei tabù sessuali che
non per avere effettivamente violato la legge.
Rinchiuso nella prigione di
Charleston e, poi, in quella di Concord. Malcolm, reso furioso dalla mancanza
di droga o, meglio, dalla sua scarsità, dato che un certo numero di “paglie” veniva
sempre smerciato a caro prezzo dai secondini, tenne un comportamento talmente
irriducibile da guadagnarsi il soprannome di Satana da parte dei suoi stessi
compagni di pena.
Nel 1948, improvvisa venne
l’illuminazione: il fratello Reginald, nel corso di alcune visite, lo mise al
corrente di avere aderito alla Nazione dell’Islam, che definiva la vera
religione dei neri d’America e il cui capo era un uomo di nome Elijah Muhammad,
nato Elija Poole (Sandersville, 7 ottobre 1897 – 25 febbraio 1975) al quale
Allah si era rivelato.
La dottrina di questa setta, che,
ovviamente, nulla aveva da spartire con l’autentico islamismo, era costituita
da tutto un complesso di elementi favolistica non molto più fantasiosi di
quelli delle infinite altre superstizioni religiose che fioriscono tra le
comunità nere del Nuovo Mondo.
Ma un punto in mezzo a tutta una
grossolana paccottiglia ideologica era destinato a fare una presa immediata sul
giovane Malcolm: e, cioè, che l’uomo bianco è il diavolo e che dalla sua
malvagità derivano tutte le sciagure dell’umanità e, segnatamente, quelle delle
popolazioni nere.
Malcolm passò in rivista tutte le
miserie di cui era stato testimone durante la sua tumultuosa vita, dai
quartieri neri delle piccole città del Nord che aveva conosciuto nella sua
adolescenza agli sterminati e immondi ghetti delle metropoli, e concluse che
tutto era effettivamente colpa dell’uomo bianco che aveva sradicato i neri
dalla loro terra, li aveva ridotti in schiavitù, aveva stuprato le loro donne,
li aveva sfruttati e ingannati fino al punto da far perdere loro il senso della
propria identità razziale. E, forse, proprio perché Malcolm non era in cerca di
una risposta a problemi di ordine trascendente ma di un messaggio umano che lo
illuminasse sulla misura del suo valore di uomo di colore in una società
dominata da bianchi, l’adesione da lui data alla Nazione dell’Islam fu totale.
Trasferito per interessamento della
sorellastra Ella nel carcere sperimentale di Norfolk (Massachusetts) ebbe a
disposizione una biblioteca eccezionalmente ben fornita. Pur essendo
praticamente analfabeta, si diede alla lettura in modo frenetico. Per conoscere
il significato delle parole nuove che via via incontrava ricopiò un intero dizionario dalla A alla Z,
passò, poi, a testi di storia, di sociologia e di filosofia, fino a munirsi di
un bagaglio culturale assai vasto, anche se non privo dei difetti tipici di un
autodidatta.
Liberato sulla parola, nel 1952,
Malcolm iniziava a ventisette anni una nuova vita. Entrato in diretto contatto
con Elijah Muhammad, ben presto fu nominato assistente pastore nel “tempio
numero uno” di Detroit: qui, fin dall’inizio, fu attivissimo nel reclutare
proseliti e nel tenere discorsi ispirati da un’arte oratoria spontanea e di
eccezionale vigore. Fu in questo periodo che, secondo un’usanza dei Black
Muslims – questo il nome con cui venivano chiamati gli aderenti alla Nazione
dell’Islam – Malcolm mutò le proprie generalità da Malcolm Little in Malcom X,
ove la X stava per
il nome di famiglia sconosciuta dei suoi avi allorché erano stati imbarcati a
forza dal bianco per l’America.
A un contenuto egualmente polemico
furono ispirati i suoi sermoni; quasi invariabilmente articolati sui seguenti
punti: la elencazione delle malefatte compiute dai “diavoli bianchi con gli
occhi azzurri”, la manipolazione degli avvenimenti storici da loro eseguita a
proprio favore, l’esortazione a essere orgogliosi di appartenere alla razza
nera e a tenere un comportamento conforme a un concetto di grande rispetto nei
confronti di se stessi.
Da tutto ciò conseguiva per chi
aderiva alle Nazioni dell’Islam l’applicazione di un codice morale
eccezionalmente rigido. Ma la proibizione di ogni tipo di promiscuità sessuale,
il divieto della droga, dell’alcool, del tabacco e del gioco d’azzardo
assumevano per Malcolm una particolare coloritura: era, appunto, tramite
l’imposizione di queste regole di natura apparentemente religiosa che si mirava
alla nascita di un uomo nero dalla moralità nuova sul quale non facesse presa
il consumismo dell’uomo bianco e l’industria del vizio di cui egli teneva le
fila e dalla quale, proprio per la debolezza del fratello di colore, aveva
finora tratto colossali profitti.
A partire dal 1954, Malcolm X,
divenuto pastore nel “tempio numero sette” di New York, con la sua infaticabile
attività organizzativa su tutto il territorio degli Stati Uniti fece, in breve
volgere di tempo, compiere un enorme cammino alla Nazione dell’Islam.
Per l’intransigenza e per il coraggio
con cui portava avanti la sua crociata fu accusato di sobillazione e di
incitamento alla rivolta. In effetti, pur rimanendo la sua violenza tutta in
termini rigorosamente verbali, è vero che sulla fine degli Anni Cinquanta
l’azione di Malcolm X andava sempre più assumendo le caratteristiche della
lotta politica.
Ferocemente avverso al movimento per
i diritti civili – Malcolm non esitò ad accusare i leaders della protesta
ordinata di essersi divisi la cifra di un milione e mezzo di dollari offerti
dall’amministrazione Kennedy ai tempi della famosa marcia su Washington – colui
che era stato anche chiamato “il rosso di Detroit” intravedeva una soluzione
del problema nero unicamente in questa direzione: era assolutamente inutile esercitare uno sforzo
per l’attuazione delle norme previste dalla Costituzione, dal momento che, così
impostata, la questione ricadeva nell’ambito degli affari interni degli Stati Uniti,
per i quali era improponibile qualunque azione basata sulla solidarietà
internazionale; ciò che, invece, andava fatto era proclamare la violazione
della Carta dei Diritti dell’Uomo davanti alle Nazioni Unite al fine di
ottenere l’appoggio dei paesi africani e asiatici allora appena sottrattisi al
giogo colonialista.
Concepito su questa direttrice, è
ovvio che il programma di Malcolm si trovasse a radunare intorno a sé molti
degli elementi più avanzati del nazionalismo nero, dei quali automaticamente
egli si trovava ad assumere la guida.
Fu a questo punto che si verificò la
rottura tra Malcolm ed Elijah Muhammad: non poteva andare certamente in modo
diverso se è vero, come ebbe più tardi a rivelare lo stesso Malcolm, che tra
Elijah e i capi del Ku Klux Klan era stato pattuito un accordo per la
spartizione su base razziale degli Stati Uniti della Georgia e del South
Carolina qualora l’estrema destra americana fosse riuscita ad assumere il
potere.
È, peraltro, assai probabile che
Elijah Muhammad, pur assai soddisfatto inizialmente della larga base che
Malcolm aveva fatto assumere al suo movimento, abbia, poi, iniziato a temere di
vedere compromessa la propria vantaggiosa condizione economica a causa del
radicalismo dell’allievo: la messa fuori legge della Nazione dell’Islam
avrebbe, infatti, significato la chiusura della catena di negozi e delle altre
capillari attività commerciali gestite dalla setta dalle quali Elijah, uomo
mediocre e venale, largamente attingeva.
L’occasione per estromettere dalla
Nazione dell’Islam l’ormai scomodo profeta doveva offrirsi a Elijah Muhammad,
il 23 novembre 1963, quando Malcolm, commentando con dei giornalisti
l’assassinio del Presidente Kennedy, ebbe a esprimersi nel seguente modo:
“Le galline che tornano al pollaio non mi hanno mai reso triste.”
La frase, dal significato analogo a quello del detto italiano:
“Chi semina vento raccoglie tempesta.”,
intendeva unicamente alludere al seme
di violenza profondamente radicato nella società americana e ai suoi mostruosi
frutti.
Elijah Muhammad, senza entrare nel
merito della giustezza dell’analisi, la giudicò intempestiva e dannosa agli
interessi della setta: di conseguenza, Malcolm venne sospeso per un periodo di
tre mesi da ogni tipo di attività. Ma, in realtà, questo era solo il primo
passo per isolare definitivamente Malcolm e ridurre la sua voce al silenzio
totale.
Il rosso di Detroit non era,
tuttavia, uomo da poter venire manovrato così facilmente e, dopo un primo
comprensibile sbigottimento, lo lasciò chiaramente intendere: iniziarono, così,
a correre le prime voci circa l’insicurezza della stessa vita. Malcolm non
disarmò e nel marzo del 1964 fondava a New York la Muslim Mosque Inc.,
un’associazione sulla base religiosa dell’Islamismo, ma aperta anche a neri non
credenti o di diversa fede, il cui scopo era di fissare i presupposti per
un’internazionalizzazione del problema razziale negli Stati Uniti.
Quasi contemporaneamente Malcolm
intraprese un pellegrinaggio alla Mecca. Il viaggio ebbe importanti
conseguenze, sia sul piano ideologico, sia su quello strettamente politico. Se,
infatti, il contatto alla Mecca con le masse appartenenti ai ceppi etnici più
diversi valse ad aprirgli una più ampia dimensione del concetto di fratellanza
non più da fondare esclusivamente sul colore della pelle, gli incontri avuti
con personalità politiche arabe, egiziane e, più tardi, sulla via del ritorno,
sudanesi, nigeriane e del Ghana lo confermarono, con le loro dimostrazioni di
simpatia e di fiducia, nell’opinione che la strada imboccata aveva delle reali
possibilità di successo.
L’anno seguente, Malcolm, recatosi al
Cairo per partecipare al Congresso per l’unità africana, presentò una mozione a
favore di una lotta su scala internazionale alla politica razzista degli Stati
Uniti, lotta da iniziare mediante una messa in stato di accusa da parte
dell’Assemblea delle Nazioni Unite.
Forse, Malcolm non comprese del tutto
quali problemi di ordine internazionale rischiassero di porre le sue iniziative
al Governo degli Stati Uniti e continuò a additare in Elijah Muhammad l’unico
uomo che avrebbe impedito alla sua bocca di continuare a parlare.
Ma, se i tre sicari che lo
fulminarono con ben sedici pallottole quella domenica mattina del febbraio 1965
alla Audubon Ballroom di New York erano effettivamente dei membri della Nazione
dell’Islam, è certo che la posta del gioco era, ormai, tale da comportare
mandanti assai più in alto e complicità diverse.
In definitiva, l’eliminazione di
Malcolm X fu un assassinio politico non eccessivamente misterioso tra i troppi
che hanno insanguinato l’America.
Daniela Zini
Copyright © 19 maggio 2014 ADZ
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