“He who controls the past controls
the future.
He who controls the present controls
the past.”
George Orwell, 1984
SOCIETA’ SEGRETE
“In
politics, nothing happens by accident. If it happens, you can bet it was
planned that way.”
Franklin D. Roosevelt
all’Associazione Antiracket di Mazara del Vallo
“Oggi sappiamo che il rapporto tra Mafia
e Politica è il cuore del problema. Soprattutto in un momento storico come
questo, in cui lo Stato è riuscito a colpire duramente l’ala militare di Cosa Nostra,
ci si deve rendere conto che per sconfiggere definitivamente la Mafia è
assolutamente necessario recidere i suoi rapporti con la Politica.”
Nino Di Matteo
“Chi tace e chi piega la testa muore ogni
volta che lo fa, chi parla e chi cammina a testa alta muore una volta sola.”
Giovanni Falcone
ai Magistrati e alle Forze dell’Ordine,
che, quotidianamente, sono impegnati nella lotta alla criminalità organizzata.
A chi sostiene che tanto non cambierà mai
nulla, vorrei dire:
“Il problema siamo tutti noi che non
facciamo nulla.
Stabiliamo una presenza costante o avremo
una costante violenza.
Meglio provare e non riuscire che non
riuscire a provare!”
Daniela
Zini
Crediamo, veramente, di conoscere tutto ciò
che accade sul nostro pianeta?
Gli uomini che occupano uno spazio di primo
piano sulla scena politica dispongono di un potere reale?
Il mondo degli affari è viziato da società segrete?
Molti sostengono che potenti personaggi
esercitino un controllo assoluto su tutti gli eventi mondiali.
È il problema essenziale che tratteremo in
questa inchiesta, dove si dimostra, attraverso una serie di esempi
stupefacenti, che la sorte delle Nazioni dipende, sovente, dalla volontà di
gruppi di uomini che non hanno alcuna funzione ufficiale. Si tratta di società
segrete, veri cripto-governi, che reggono la nostra sorte a insaputa di tutti.
La loro esistenza non può essere avvertita che quando un fatto imprevisto li
obbliga ad agire alla luce del sole.
Circa due anni e
mezzo prima del suo assassinio, il 27 aprile 1961, John Fitzgerald Kennedy
tenne ai rappresentanti della stampa, riuniti presso l’Hotel Waldorf-Astoria di
New York, un discorso incentrato sulla analisi e sul pericolo della Guerra
Fredda [http://www.youtube.com/watch?v=PFMbYifiXI4],
tuttavia, alcuni suoi passaggi, sembrano alludere, non alla sfida acerrima
contro l’Unione Sovietica, ma a qualcosa di altro di più oscuro e di più
pericoloso.
“[…] La
stessa parola “segretezza” è ripugnante in una società libera e aperta; e noi, come popolo, siamo intimamente e
storicamente contrari alle società
segrete, ai giuramenti segreti e
alle procedure segrete. Abbiamo deciso,
molto tempo fa, che i pericoli di
un eccessivo e ingiustificato occultamento di fatti pertinenti
superino, di gran lunga, i pericoli che
vengono invocati a giustificazione. […]”
La storia è costellata di enigmi intorno alle
società segrete, che si tratti di potenti organizzazioni economiche, sociali,
politiche o di clubs privati
riservati a una élite.
Pressoché tutte le civiltà sono state, in
un’epoca o in un’altra, il rifugio di queste società dell’ombra: riunioni dietro
porte chiuse, divieto di rivelare ciò che si dice all’esterno, sospetto a ogni
gesto o parola di uno dei membri...
Il mistero di cui le società segrete si
ammantano non è avulso dall’interesse che suscitano appena se ne parli.
E se si cercasse di squarciare questo
mistero?
Che ne è della sedicente influenza delle
società segrete attraverso la storia?
Sono state, sono così potenti come si
pretende?
Vi è motivo di temerle?
Tante domande alla partenza di una
appassionante incursione nel cuore delle società segrete più celebri della
storia.
In questo reportage, solidamente documentato, penetreremo all’interno delle
società segrete più conosciute, riassumendone la storia, descrivendone i riti
di iniziazione, i segni e il linguaggio, che sono loro propri.
Se le voci che circondano le società
segrete, rispondono, in parte, alla sete di meraviglioso, che ci viene dalla
nostra infanzia, contribuiscono, troppo sovente, ad assumere un pensiero non
critico, che degenera, facilmente, in paranoia.
Dedicare una inchiesta alle società segrete
in un mondo, in cui la cultura del segreto [di Stato, scientifico, nucleare,
ecc.] viene, incessantemente, a ricordarci che, in quanto semplici cittadini,
noi restiamo fuori degli arcani di una conoscenza superiore, cui solo gli “eletti”
[capi di Stato, militari, diplomatici, spie, ecc.] possono accedere, mi è
sembrata una idea luminosa e illuminante.
Non sono, certo, la prima, tuttavia, i miei
predecessori sono stati, sovente, credibili, ma discutibili, perché, occorrendo
un inizio di cui non si aveva prova, questo è stato, sovente, su un continente
scomparso o su un disco volante.
Una delle numerose tesi ricorrenti sulle
società segrete è che
le suddette società segrete funzionino come le nostre società “reali”, di cui
rappresentano dei doppi sovversivi, critici, inaccessibili, ma anche necessari
per controbilanciare l’ordine mondiale, governato dai poteri temporali,
sensatamente trasparenti, perché eletti secondo principi democratici.
Scrive Georg Simmel:
“Le
società segrete sono, per così dire, delle repliche in miniatura del “mondo
ufficiale”, al quale resistono e si oppongono.”
L’inizio delle società segrete si perde,
necessariamente, nella rarefazione delle tracce di un passato sempre più
lontano: Grecia, Egitto dei faraoni neri, Sumer e, forse, oltre…
“In
principio era il buio.”
Sarebbe stato più comodo iniziare dalla
fine, giacché le società stesse sono alla ricerca delle loro origini.
“Poi fu
la luce.”
Allorché si ergeva nella direzione da cui
veniva la luce, l’uomo era in contatto con il divino e le difficoltà materiali
della vita, che, forse, formavano, allora, una unica cosa, ma che sarebbero
divenute, con la nascita del verbo e il risveglio dell’uomo alla parola, i
due poli della sua esistenza.
Nessuno sa quanto tempo l’uomo sia vissuto
al riparo del dubbio neppure se ne sia stato, mai, abitato.
Ma che la sua prima parola sia stata un
inno alla natura o una espressione del suo bisogno alimentare… ben presto, l’uomo
iniziò a tentare di condividere le proprie idee con i suoi fratelli e, ben
presto, i più sottili di questi concetti richiesero più che parole: la
trasmissione dell’esperienza e, dunque, l’iniziazione.
È possibile che le prime iniziazioni
abbiano riguardato il modo di sopravvivere nella divina natura circostante. O
che abbiano trasmesso la certezza di un mondo spirituale nascosto dietro la
materia.
Nell’Antichità, i culti misterici si
svilupparono e conobbero un grande favore nel mondo greco-romano.
In seguito, il Medioevo, teatro di guerre
di religione, dette vita ai misteriosi Templari.
Nel Rinascimento, le società segrete
assunsero tutta un’altra dimensione con il leggendario ordine dei Rosa-Croce e,
soprattutto, con la nascita della Massoneria.
Il XIX secolo segna, ancora, un’altra
svolta: la proliferazione delle società segrete, che hanno, come corollario,
legittimazioni, prestiti sempre più diversificati e una attrattiva per la
razionalità scientifica.
Il periodo contemporaneo è segnato da una
moltiplicazione di società segrete, in particolare nell’era di Internet, con
possibili derive settarie a apocalittiche.
La storia delle società segrete ha una
importante influenza sulla storia. Esiste una versione ufficiale della storia,
versione detta esoterica, che tiene conto delle società segrete, perché sono,
sovente, uscite dall’ombra.
Ma ciò che questa storia non dice sono le
ragioni segrete dei loro interventi.
E, per comprenderle, è alla storia
esoterica che bisognerà interessarsi.
Queste società segrete sono, profondamente,
legate alla magia, a partire dai documenti più antichi in nostro possesso.
Vi farò la grazia, tuttavia, di farne
ricadere la colpa, come è, sovente, il caso, sui massoni, sui sionisti o su
Satana.
Andrò, subito, al cuore del problema,
esprimendomi senza ambage, senza temere di affrontare i sistemi criminali,
basati sul controllo, il potere e la manipolazione.
Un nuovo modo di considerare il mondo in
cui viviamo!
II. LA MAFIA
di
Daniela Zini
SOCIETA’
SEGRETE I. LA CAMORRA 1. LA CAMORRA
di
Daniela Zini
SOCIETA’
SEGRETE I. LA CAMORRA 2. L’ANNORATA SOCIETA’
di
Daniela Zini
SOCIETA’
SEGRETE II. LA MAFIA 1. LA MAFIA AL CUORE DELLO STATO
di
Daniela Zini
SOCIETA’
SEGRETE II. LA MAFIA 2. LA ONORATA SOCIETA’
di
Daniela Zini
SOCIETA’
SEGRETE II. LA MAFIA 3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano
Massoneria . Parte Prima -
di Daniela
Zini
4. MAMMA COMANDA PICCIOTTO VA E FA’
Giuseppe Petrosino, detto Joe [Padula,
30 agosto 1860 - Palermo, 12 marzo 1909]
In un rarissimo dizionario siciliano-italiano, pubblicato a
Palermo, nel 1838, la parola Mafia non si trova. Si incontra soltanto in una
ristampa dell’opera, datata 1888. La Mafia vi è definita, molto sbrigativamente
e vagamente, con due sole parole: braveria, baldanza.
Un po’ poco!
Al contrario, in un curioso Dictionnaire d’occultisme et des sociétés secrètes, pubblicato, nel
1897, in
Francia, ad Angers, a cura di Ernest Desormes e di Adrien Basile, si legge:
“Maffia n. f. Association de malfaiteurs qui, existant en
Sicile, s’est répandue dans toute l’Italie et même aux
Etats-Unis; elle a pour elle le clergé, les royalistes restés fidèles à la
cause bourbonienne, même des fonctionnaires et des policiers, et se livre surtout à
des extorsions, en capturant de riches particuliers qu’elle ne rend que contre
une forte rançon.”[http://osmth-gisors.fr/livres/dictionnaire-occultisme.pdf]
Non è molto, ma è già qualcosa!
Notevole, soprattutto, la allusione alla filiale americana
della Onorata Società. Desormes e Basile furono, con ogni probabilità, i primi
a farne cenno e il fatto che Basile fosse un palermitano emigrato, in Francia,
aggiunge alla citazione il peso di una diretta competenza.
Si rifletta un momento…
Nel 1908, un tenente della polizia di New York, Giuseppe
Petrosino, si presentò al sindaco della città e gli tenne, più o meno, il
seguente discorso:
“Di fronte allo straordinario numero di delitti di ogni
genere, dal taglieggiamento all’omicidio, che si verificano, ogni giorno, a
Brooklyn e dovunque vivano emigrati italiani, voi tirate in ballo una
misteriosa e fantomatica Mano Nera. I miei genitori erano entrambi siciliani,
quindi, la so abbastanza lunga. La Mano Nera esiste, soltanto, nella immaginazione
popolare, esattamente come l’Uomo Nero, inventato per spaventare i bambini. In
realtà, dietro i ricatti, le violenze e gli assassinii che ci preoccupano, vi è
una associazione a delinquere perfettamente organizzata, con solide gerarchie e
leggi precise. Si chiama Mafia. È squisitamente siciliana e non va confusa con
la Camorra di Napoli. Date retta a me, signor sindaco: se vogliamo risolvere il
problema, dobbiamo cominciare da Palermo.”
Quando i giornali riferirono dell’intervento di Petrosino, l’opinione
pubblica, particolarmente la siculo-americana, sogghignò del coraggioso
ufficiale e, in qualche caso, si mostrò addirittura offesa, scandalizzata.
“Non esiste delinquenza organizzata, negli Stati Uniti!”,
si gridò.
“La Mafia è una favola!”
Soltanto il capo della polizia di New York, il generale Theodore
A. Bingham, avvocato, democratico e
massone, diede credito alla tesi di Petrosino, che, com’è noto, partì in
missione segreta alla volta del capoluogo ligure, alle 16.00 del
martedì 9 febbraio 1909.
L’Araldo Italiano, il giornale per gli
italiani d’America, strombazzava:
“Il
Petrosino si reca in Italia per studiarvi quei regolamenti di pubblica
sicurezza. Si dice che a Bologna si fermerà per avere cognizioni sulla
criminologia, sulla pena di morte e sulle belle mortadelle. A Firenze si
tratterrà per osservare le carceri dell’antico palazzo del Bargello e il fiasco
paesano. A Napoli per la camorra, la malavita e i maccheroni alle vongole. A
Palermo per la mafia e le squisite cassate alla siciliana. A Torino si fermerà
per i barabba e i grissini. A Milano per la teppa e la busecca. A Venezia per i
terribili Piombi e la zucca barucca. A Roma per il Colosseo e l’abbacchio.”
Sulla Duca
di Genova, viaggiava sotto il nome di Simone Velletri e alloggiava nella
cabina di prima classe numero 10.
Con sé
due valigie nuove di cuoio giallo, in una delle quali, la pistola d’ordinanza,
una Smith & Wesson calibro 38.
Petrosino sbarcava, a Genova, con circa 26 ore
di ritardo, alle 6 della domenica 21 febbraio 1909. Prendeva, poi, un treno per
Roma, ove giungeva alle 20.20 e fissava la camera numero 9, per 6 lire a notte,
nell’Hotel Inghilterra, in via Bocca
di Leone, con il nome di Gugliemo Simone. Prendeva,
quindi, contatto con il capo di gabinetto di Giovanni Giolitti, Camillo Peano, e
il capo della polizia, Francesco Leonardi.
Il 26
febbraio, inviava il primo rapporto all’assessore Bingham:
“Caro
assessore Bingham, sono giunto a Roma alle 8.20 p.m. del 21 corr. ma essendo l’anniversario
della nascita di Washington e contemporaneamente la festa del carnevale romano,
che è durata due giorni, non ho potuto vedere alcuna delle persone cui dovevo
rivolgermi. Alfine, grazie ai buoni uffici dell’Ambasciatore americano, ho
potuto essere presentato al Ministro degli Interni on. Peano con il quale ho
avuto una conversazione sui criminali italiani e sulle loro malefatte negli USA.
Egli si è tanto interessato alla questione che ha dato disposizione al Capo
della Polizia, S.E. Francesco Leonardi, di ordinare tassativamente ai Prefetti,
Sottoprefetti e Sindaci di tutto il Regno di non rilasciare passaporti ai
criminali italiani diretti negli USA. Mi ha anche dato una lettera indirizzata
a tutti i Questori della Sicilia, Calabria e Napoli, con l’invito a facilitarmi
in ogni modo nell’adempimento della mia missione. Sia il Ministro che il Capo
della Polizia, avevano già sentito parlare di me. Ho anche mostrato loro l’orologio
d’oro donatemi dal Capo italiano, come sapete.
Caro
generale, il viaggio è stato molto brutto: per quasi tutta la durata il tempo è
stato cattivo. La nave ha avuto ventisei ore di ritardo e io non mi sento
troppo bene, per cui, prima di mettermi concretamente al lavoro, mi prenderò un
paio di giorni di riposo. Quando sarò a Palermo per iniziare il “lavoro”, vi
informerò costantemente dei risultati. Augurando una vita lunga e felice a voi
e al signor Woods [assistente di Bingham, ndr] rimango vostro devotissimo
La domenica 28 febbraio 1909, Petrosino arrivava
a Palermo, alle 8, con il postale proveniente da Napoli. Prendeva alloggio, sotto il falso nome di Simone Valenti di Giudea,
nella stanza numero 16 dell’Hotel
de France, in Piazza Marina, e, sospettando che la Mafia, spingendo i suoi
tentacoli tra il personale dell’albergo, gli intercettasse la corrispondenza,
fissò il suo recapito postale presso la segreteria della Banca Commerciale, i
cui impiegati erano, in prevalenza, settentrionali.
Durante la sua permanenza palermitana, in una
lettera alla moglie, scriveva:
“Carissima
moglie, sono arrivato in Palermo, mi trovo tutto confuso e mi pare mille anni
di ritornare.
Non mi piace
affatto tutta l’Italia che poi quando ne vengo ti spiego.
Dio, Dio che miseria!
Sono stato
malato cinque giorni. C’era l’influenza e sono dovuto stare a Roma, ma adesso
mi sento bene. Dunque tutte le comunicazioni mandale alla Banca Commerciale di
Palermo che questa è la mia direzione.
Saluta
Angelina, Luigi.
Bacia cugino Arturo
come pure mio fratello Antonio con la sua famiglia.
Compare
Carlucci e la sua famiglia. Saluta tua sorella e suo marito.
Alla mia cara
Bambina e a te mille e mille abbracci.”
Nonostante queste precauzioni, il 12 marzo 1909, tre colpi
di pistola in rapida successione e un quarto sparato subito dopo fulminarono il quarantanovenne poliziotto, a circa venti
metri dal monumento a Giuseppe Garibaldi, in Piazza Marina, nella zona
occidentale di Palermo. Cinque giorni prima, Petrosino aveva fatto sapere all’assessore
Bingham che le sue indagini stavano approdando a risultati “sbalorditivi”.
Dunque, Petrosino, puntando il dito sulla Mafia, aveva visto
giusto.
La sua morte ne era la riprova.
D’altra parte, il professor Basile aveva già, stabilito, nel
suo dictionnaire, dodici anni prima,
lo stretto rapporto tra malavita siciliana in America e Mamma Mafia.
E nonostnte ciò, per altri quaranta anni, la questione della
delinquenza organizzata negli Stati Uniti e della Mafia, torna nell’ombra,
svanisce.
Riaffiora, quasi improvvisamente, nel 1950, quando l’opinione
pubblica americana la rimette, clamorosamente, in tavola, con esclamazioni di
sorpresa, come se si trattasse di una incredibile novità. È il momento della
famosa Commissione Kefauver, composta da senatori e probiviri, incaricata di
rivedere le bucce ai “pezzi grossi” del gangsterismo. Non ci vuole molto a
constatare, purtroppo, che lo stato maggiore dell’Anonima Delitti è composto, prevalentemente, da italiani,
provenienti dall’estremo meridione. Si chiamano Charles Lucky Luciano [Salvatore
Lucania], Frank Costello
[Francesco Castiglia], Joe Adonis [Giuseppe
Antonio Doto],
Albert Anastasia [Umberto Anastasio], Antonino Accardo, Paul Ricca The Waiter, Giuseppe Fiaschetti, Joseph
Charles Fusco, cugino di Al Capone, e così via.
Mamma Mafia, tenebrosa orchidea sbocciata sullo zolfo
siciliano, ha qualcosa di caratteristico: come certi odori e certi sapori che
non restano nel naso e nel palato, non resta nella memoria.
Charles Lucky Luciano
Bisogna, sempre, riprovarla per credervi: sia in Sicilia, sia
altrove.
Poiché i suoi interessi “interni” si innestano ad altri più
vasti e generali, di natura specialmente politica, vi è, sempre, qualcuno, in “alto
loco” che la aiuta a camuffarsi e a far perdere le sue tracce.
Non è neppure facile fissare i lineamenti storici della
potentissima associazione. L’origine stessa del suo nome è incerta. Alcuni
filologi la trovano in una espressione toscana, maffia, che vuol dire miseria nera. Altri nel vocabolo francese mauvais, certamente assai diffuso, in
Sicilia, prima dei Vespri. Altri ancora ritengono che la radice del temutissimo
nome sia araba: i Mà-afir erano una
tribù berbera, stabilitasi nei dintorni di Palermo, al tempo dei Mori.
Talvolta, gli approfondimenti storici, di massima
indispensabili a comprendere la realtà in cui si vive, eccedono nell’astrazione.
Nel caso della Mafia si può perdere il contatto con l’“attualità” del fenomeno
viaggiando troppo all’indietro nei secoli. Non vi è dubbio che il discorso
possa anche iniziarsi dalle più remote manifestazioni del brigantaggio
siciliano, considerato sia come attività puramente criminale, sia come
risultato di una protesta sociale, di una ribellione di povera gente contro il
dispotismo dei ricchi, dei feudatari, dei “Baroni” e dei loro scagnozzi.
L’unione fa la forza.
È una delle più antiche scoperte dell’Umanità.
È, quindi, molto probabile che, già, al tempo dei Normanni, i
miseri siciliani si riunissero in leghe e associazioni clandestine, per
fronteggiare, collettivamente, la prepotenza schiacciante dei “Signori”.
Possiamo anche ammettere che tali leghe, nei bisbigli del popolo, fossero, genericamente,
indicate con il nome di “Mafia”. Ma prendendola così, alla lontana, rischiamo
di imboccare un viottolo secondario o un vicolo cieco, anziché la strada
maestra.
Circa le origini, i fattori formativi e gli sviluppi della Mafia,
abbiamo a disposizione decine e decine di saggi e di monografie, tutte apparse
negli ultimi centocinquanta anni. Dallo studio di Giuseppe Ciotti, I casi di Palermo, datato 1866 [http://books.google.it/books?id=n88vAAAAYAAJ&printsec=frontcover&hl=it&source=gbs_ge_summary_r&cad=0#v=onepage&q&f=false],
a quello di Gaetano Mosca, pubblicato
con il titolo Che cos’è
la mafia, nel 1900, dal Giornale
degli economisti; dalle fondamentali pagine di Napoleone Colajanni, apparse
nel 1894, a
quelle, non meno interessanti, scritte, nel 1956, dal generale dei carabinieri Renato
Candida.
Una bibliografia ricchissima.
Tutti sono d’accordo, a parte le interpretazioni politiche,
sul carattere “feudale” della Onorata Società.
Le radici di Mamma Mafia sono, tenacemente, profondamente
conficcate nella secolare, atavica sfiducia degli isolani circa l’efficienza e
l’imparzialità della Giustizia ufficiale.
Durante il Medioevo, quando il “Sinore” era padrone assoluto
di terra, uomini e cose, l’oscura gente del feudo, sottoposta a ogni genere di
vessazioni e di capricci, trovò indubbiamente un minimo di sicurezza nelle
intese segrete, nei patti di reciproca asistenza, nelle vendette. Sprattutto in
quella inviolabile legge del silenzio di fronte alle autorità costituite, che è
l’omertà.
Nel 1812, quando il feudalesimo fu abolito, più sulla carta
che di fatto, e un quarto della terra appartenente ai “Baroni” (il quarto
peggiore) fu ceduto ai Comuni, nulla, praticamente, cambiò. Con l’aggravante
che le “squadre d’armi”, costituite dai feudatari per affermare con la forza la
“loro” legge, restarono disoccupate e si buttarono al brigantaggio per
sopravvivere. Il Borbone fu ben presto a riassorbirle, trasformandole in
“compgnie d’armi”: reparti che non appartenevano né all’esercito né alla
polizia, addetti alla sicurezza pubblica, nelle campagne, con un sistema di
“appalto”. Il comandante di compagnia era autorizzato a riscuotere “tangenti”
dai piccoli proprietari, creati dalla riforma agraria, in cambio di “vigilanza”
a parte il crisma legale e la “cauzione” regolarmente versata dal capitano
all’amministrazione borbonica, il meccanismo era identico a quello della
“protezione” mafiosa. Tanto è vero che, nel 1877, allorché il ministro Giovanni
Nicotera abolì, definitivamente, le “compagnie”, queste, respinte
nell’illegalità, come era, già, avvenuto, nel 1812, continuarono a “lavorare”
nell’ombra, intessendo una fitta rete di ricatti, intimidazioni e rappresaglie.
Proprio per proteggersi da quei “protettori”, i grossi e medi terrieri furono
costretti ad assoldare i cosiddetti “campieri”, guardie private addette alla
sorveglianza del fondo e del bestiame.
La Mafia, che, per alcuni secoli, fu più che altro una
condizione latente, uno stato d’animo dei siciliani, si coagulò attorno ai
residui, ai moncherini delle organizzazioni feudali. L’omertà, ferrea legge
degli oppressi, divenne legge comune. In un gioco mal decifrabile di prepotenze
accettate come legge e di leggi considerate prepotenze, la Onorata Società
acquistò forma, consistenza, gerarchia e potenza. Passò dallo stato fluido a
quello solido. Unificò, un po’ alla volta, bande, combriccole di malviventi e
associazioni a delinquere, ovviamente interessatea collaborare e a darsi
manforte.
Nel 1890, il questore di Palermo scoprì che le principali
“fratellanze” mafiose della Sicilia occidentale, i “Fratuzzi” di Bagheria, gli “Stupagghieri”
di Monreale, gli “Oblonici” di Agrigento, i Fratelli di Favara, gli “Scagghiuni”
di Enna e la “Nuova Fontana” di Misilmeri, in apparenza indipendenti, erano, in
realtà, strettamente collegate. Per la prima volta, i giornali, citando la
Mafia, adoperarono la emme maiuscola e iniziarono a distinguerla dal
banditismo.
Uno degli elementi che confonde maggiormente le idee, in
fatto di mafia, antica e moderna, è proprio il brigantaggio. Il brigante
siciliano, dal Vendicatore dei Poveri, Antonio Catinella, detto Saltaleviti,
impiccato a Palermo, nel 1706, fino al Re di Montelepre, Salvatore Giuliano,
eliminato, il 5 luglio 1950, può essere uno strumento della Mafia, che lo
appoggia finché gli è utile, ma non appartiene quasi mai alle gerarchie della
Mafia. È un concetto fondamentale, senza il quale non è possibile comprendere
la vera natura della Onorata Società.
Si sente spesso dire, particolarmente, da parte di
maggiorenti siciliani:
“La Mafia, signori miei, non esiste!
È romanzesco, infantile pensare che tanti episodi di
delinquenza comune, completamente staccati l’uno dall’altro, abbiano la stessa
sovrintendenza. Esistono i mafiosi, se i malfattori volete chiamarli così. La Mafia,
no.”
Ammettendo che sia fatto in buona fede, è un discorso
ingenuo.
Implica la nascosta convinzione che la Mafia abbia una sua
immutabile fisionomia e certe immutabili finalità.
Niente di meno vero!
Gli unici caratteri fissi e invariabili della associazione,
detta affettuosamente Mamma dai suoi accoliti, sono l’organizzazione e il
ferreo rispetto alle gerarchie.
Caratteri interni, “costituzionali”.
Il perché, il come, per chi debbano agire gli affiliati,
pronti a muoversi a un cenno, è cosa che riguarda soltanto i “pezzi grossi”, i “capi”,
i “maestri”.
La Mafia è una gigantesca macchina, dagli ingranaggi
intenzionali, disposta a servire qualsiasi causa le assicuri danaro, vantaggi,
privilegi e, soprattutto, immunità. Tanto è vero che i picciotti, entrando a
farne parte, attraverso quei piccoli gruppi, quelle ristrette cellule di non
oltre dodici elementi, chiamati cosche,
giurano, pena la vita, di mantenersi fedeli alla Società e di obbedire subito,
senza esitazioni, a qualsiasi ordine venga loro impartito dai “superiori”; anzi
dal “superiore” diretto, portavoce di più alte, mitologiche autorità. Non
giurano mai, in nessun caso, di restare fedeli a una “causa”, a una “missione”.
Il nocciolo della questione si può chiudere in sei parole:
“I mafiosi passano, la Mafia resta.”
A questo punto, è possibile capire con chiarezza perché la Mafia,
in molte occasioni, si presenti in posizioni diverse, perfino contraddittorie.
Perché, di tanto in tanto, alcuni dei suoi membri effettivi o ausiliari vengano
improvvisamente tolti di mezzo, con uno scatenarsi di violenza, che, talvolta,
assume le proporzioni della strage. Perché i
killers, i sicari, i boia dell’associazione siano pronti a eliminare, senza
battere ciglio, chiunque venga loro semplicemente indicato.
Allorchè, nel 1860, Giuseppe Garibaldi sbarcò con i suoi
Mille, la Onorata Società si divise su due fronti: quello borbonico e quello
patriottico. Questo, almeno, è ciò che comunemente si crede e si dice.
Ma è un errore.
In realtà, non fu la Mafia a dividersi in due.
Non vi furono mai “due” Mafie, una contro l’altra.
Si verificò, invece, che la Mafia, unica sola, al di sopra della
mischia, diretta da “galantuomini” rispettati e insospettati, giocasse su due
colori per non perdere in nessun caso.
Il doppio gioco è assai più antico del 1944-1945!
Quando Garibaldi vinse la partita, i picciotti in camicia
rossa restarono; quelli che avevano combattuto dall’altra parte obbedirono al:
“Si salvi chi può!”
Emigrarono in Tunisia, in Francia, in Egitto.
A migliaia, tra i quali la cosca dei Candela, quella dei
Cusumano, dei Matranga e dei Bacula, superarono l’Atlantico e si stabilirono in
America. Resta, tuttavia, ancora da spiegare chi li aiutò, a corto di fondi e
di cognizioni come erano, a lasciare l’isola, ormai controllata dal Leone di
Caprera e dai funzionari, prontamente passati al suo servizio.
Chi, se, non lei, la Mamma, la Mafia?
La stessa che, nel nostro tempo, all’occorrenza può spedire i
suoi emissari in qualsiasi parte del mondo, dall’oggi al domani, con qualsiasi
mezzo, senza passaporto, senza il più comune documento di identità, perfino,
senza farli risultare nell’elenco dei passeggeri…
Ma torniamo alla Sicilia di un secolo fa!
Nel 1863, tre anni dopo l’annessione al Regno d’Italia, la
detronizzata regina delle due Sicilie, Maria Sofia di Wittelsbach,
stabilitasi a Roma, organizzò un estremo
tentativo di restaurazione, giocando sul malumore e sul risentimento dei “Baroni”,
molti dei quali, in un primo tempo, avevano appoggiato Garibaldi, con la
speranza di grossi vantaggi e, in seguito, delusi, si erano messi a cospirare
contro il governo sabaudo. Anche l’“autonomismo”, nelle cui fila militavano
numerosi ex-garibaldini, portava acqua al mulino di Maria Sofia. Risulta dalle
cronache che la regina stipendiò, quali agenti provocatori e organizzatori di
attentati, i fratelli Giona e Cipriano La Gala, Domenico Papa e Giovanni D’Avanzo
[http://archive.org/stream/processodeibrig00unkngoog/processodeibrig00unkngoog_djvu.txt].
Quando, il 10 luglio 1863, fallito il colpo di mano, i
quattro vennero arrestati nel porto di Genova, mentre tentavano di espatriare,
sotto falso nome, a bordo del piroscafo francese Aunis, ebbe inizio un complicato caso diplomatico, con
interminabili proteste, note, contronote e controproteste, tra Parigi e Torino.
La
sentenza emessa il 13 marzo 1864, condannò D’Avanzo a venti anni di
reclusione, Domenico Papa ai lavori forzati, Giona e Cipriano La
Sala alla pena di morte. Ma l’avvocato Cecaro sa di poter tentare ancora
una carta.
I La
Gala dietro suo consiglio, indirizzano a Francesco II una supplica:
A Sua
Real Maestà
Francesco
II Re del Regno delle Due Sicilie
Sire
Magnanimo,
Cipriano
e Giona La Gala prostrati ai sacri pié di V. M. umilmente espongono come essi,
fin dal 10 luglio ‘63 arrestati abusivamente in Genova, tradotti in S. Maria
unitamente agli altri due colleghi Giovanni D’Avanzo e Domenico Papa, sono
stati gli esponenti condannati a morte e gli altri due, uno cioè il D’Avanzo ad
anni 20 di ferri e l’altro Papa ai ferri a vita. Cosicché vedendosi gli oratori
con i ferri ai piedi ed alle mani già in cappella, supplicano la carità a V. M.
degnarsi parlarne al Papa ed al suo Ministro Antonelli come a ludibrio del suo passaporto vidimato dai consoli
francese e spagnolo, sono ridotti in tale stato previo un arresto abusivo. Cosicché
trattandosi di morte e trattandosi essere inciampati in mano ad un governo
nemico, supplicano V. Maestà cooperarsi col Ministro Pontificio interporre i
suoi uffici colla Francia e liberare perchè giusto, i quattro condannati, cioè
i Della Gala a morte e il D’Avanzo Giovanni ai ferri per anni 20 ed il Papa
Domenico ai ferri a vita. V. Maestà può se vuole, stante che tutta la ragione è
dal canto dei supplicanti e si tratta di morte a ludibrio della savia
convenzione diplomatica del 1838 cui è favorevole ai supplicanti intorno all’omissione
politica art. 6. Di tanto espongono e l’avranno a grazia speciale mentre non
riusciva mica difficile ad un governo nemico esacerbato contro i medesimi di
farli trovare colpevoli e di intrigarli come egli voleva. Essi si raccomandano
alla giustizia di V. Maestà, quali hanno ragione per essere stati abusivamente
presi in terreno straniero, contro ogni legge divina ed umana ed
internazionale. L’avrà a grazia speciale come da Dio. Gli umilissimi sudditi di
Vostra Maestà Cipriano e Giona La Gala non che Giovanni D’Avanzo e Domenico
Papa supplicano come sopra.
Giona e Cipriano La Gala
E, attraverso
gli opportuni canali diplomatici, fu fatta opera di persuasione e la condanna a
morte dei La Gala, nel successivo ricorso alla Cassazione, fu commutata nei
lavori forzati a vita.
Doveva
finire così!
Gli
stessi magistrati sapevano che non avrebbero potuto ottenere di più…
Risultò, tuttavia, dalle indagini, svolte per ordine del
ministro Marco Minghetti, che i quattro
arrestati avevano, sempre, seguito le direttive dell’ispettore di pubblica
sicurezza Francesco Daddi, sedicente “autonomista mazziniano”, ma, in realtà,
lunga mano della Mafia nella polizia.
Daddi, che era stato arrestato, il 13 marzo 1863, ammise di
conoscere i fratelli La Gala, in quanto gli erano stati “vivamente
raccomandati” dal suo buon amico Francesco Starrabba, principe di Giardinelli, anche lui
ammanettato nel marzo. Il principe di Giardinelli dichiarò che i fratelli
glieli aveva presentati, come “picciotti d’onore”, un suo “campiere”, un certo
Gentile Gentile, dipendente fidatissimo e onesto.
Gentile, interrogato a sua volta, rispose:
“Poco so di questi fratelli. Me li mandò persona di gran
rispetto da Palermo. So che dovevano portarsi sul continente per certi affari.
Nel ‘60, essi aiutarono il generale Garibaldi a sbrigarsi in molti impicci.”
Caso classico!
Troviamo i pregiudicati La Gala dalla parte dei patrioti, nel
1860; li ritroviamo, tre anni più tardi, al servizio del Borbone.
Assistiamo al loro arresto, sul piroscafo Aunis, ma non sappiamo chi fosse quella
“persona di gran rispetto” che li aveva sguinzagliati da Palermo. O meglio, non
ne conosciamo il nome, ma ne possiamo indovinare, facilmente, la qualità.
Un “pezzo da 90”
– o, forse, perfino, un “120”
– di Mamma Mafia.
Anche allora, come ora, nei momenti critici saltavano i La
Gala.
La Mafia, come ogni circuito elettrico ben fatto, ha le sue
valvole di sicurezza, per impedire i corti circuiti: i La Gala, che,
certamente, una certa sera, a “mezzanotte meno tre” – come si dice sia
prescritto dal vecchio codice delle cosche – avevano giurato obbedienza cieca e
assoluta al loro superiore “riconosciuto”, vale a dire immediato, diretto. Che
l’ordine fosse di proteggere Giuseppe Garibaldi, oppure di sparargli “a
lupara”, ossia con pallettoni da lupo, non “era cosa loro”.
“Picciotto, va e fa’.”
Questa è la formula!
Non è ammesso neppure mormorare:
“Perché?”
Basta una parola, per essere “riposati”...
Ammazzati, per dirla con minore riguardo!
Questo patto di dedizione completa, di sottomissione totale,
è la forza numero uno della Mafia, è il suo granitico basamento.
La forza numero due è la suddivisione in cosche: piccoli
agglomerati che, di solito, agiscono isolati e hanno l’incarico di portare a
termine, dal principio alla fine, tutta una operazione, ma che all’occorrenza
possono, provvisoriamente, collaborare.
Il capo-cosca non è un uomo “di cappello”. È ancora uomo “di
coppola”. Di berretta.
Per trovare i “cappelli” bisogna andare più in su!
Questo, in Sicilia, anche oggi, quantunque se ne dica.
Quanto alla Mafia americana, che, sotto i cappotti di
cammello e le cravatte da 10 dollari, conservava, con incredibile osservanza, i
caratteri tradizionali, la cosca diviene un detach
(abbreviazione di detachment,
distaccamento) comandato da un hard boy,
un ragazzo duro, un giovanotto O.K.
“Organizzazione al servizio delle organizzazioni.”,
così aveva definito la Mafia Estes Kefauver, nel 1950.
In America, dopo che fu votata la legge Wilson sul
proibizionismo, ingenti grossi capitali, di origine “pulita”, affluirono nel
colossale giro delle distillerie clandestine e del cotrabbando. Il big boss dell’alcol “nero”, a New York, fu
Francesco Castiglia, detto Frank Costello.
Frank Costello
Il suo omologo, a Chicago, si chiamava Al Capone.
Sotto Costello, distaccati a dirigere le varie
“sottoprefetture”, Frank Nitti, Antonino Accardo.
Siamo nel 1930.
Negli ultimi tre anni la gang, appoggiata dal partito
democratico per il quale organizza le elezioni, si è rafforzata con elementi
freschi, scappati dalla Sicilia per sottrarsi al domicilio coatto, apllicato
con larghezza dal prefetto Cesare Primo Mori.
Al Capone
Pesci piccoli – i grossi se ne infischiano del prefetto – ma
vivaci, disposti a tutto pur di entrare nelle grazie di Mamma Mafia e di avere
in tasca rotoli ben stretti di banconote verdi: le cosiddette “foglie di
cavolo”. I nuovi “picciotti”, subito smistati nei vati detach della Onorata Società – ben mimetizzata dietro le frasche
politiche della Tammany Hall,
dell’Unione Siciliana e delle diverse
fratellanze meridionali – avevano sentito parlare, migliaia di volte, dei capi
in carica al di là dell’Atlantico, come di eroi meravigliosi, potenti,
straordinariamente ricchi e felici. Quei picciotti dell’ondata 1927-1930 non
ebbero il tempo di ingrassare con i proventi del contrabbando di birra e di whisky. La cessazione del
proibizionismo, tre anni dopo la Grande Crisi, spense, con un solo soffio, il
fuoco che, per oltre dieci anni, aveva fatto bollire, notte e giorno, le
distillatrici clandestine. Il periodo di congiuntura sarebbe stato lungo e
difficile per quei ragazzi, se Mamma Mafia non avesse provveduto, tempestivamente,
al loro impiego in altri settori ancora più prosperi e fruttuosi: controllo dei
sindacati, repressione operaia, protezione dei mercati, prostituzione, gioco,
droga.
Caduto il proibizionismo, gli affari, anziché restringersi,
si erano allargati, dilatati con straordinaria rapidità. Il più redditizio di
tutti restava, a ogni modo, la politica. Una organizzazione intimidatoria
capillare come la Onorata Società, con succursali e distaccamenti in ogni
Stato, dall’Atlantico al Pacifico, poteva garantire il successo ai candidati
che ne acquisissero i servizi. Fu proprio, allora, che i mafiosi dei
grattacieli compresero quanto fosse utile la esperienza accumulata, in Sicilia,
dalla Mamma.
Quando, negli Stati Uniti, la politica era qualcosa di mezzo
tra la Bibbia e il puritanesimo dei pionieri; in Sicilia, uomini come Francesco
Crispi sapevano, già, tutto, in fatto di “maniere forti”, applicate alla
politica. Se la potenza della Mafia, come organizzazione elettorale, era
divenuta strapotenza, nel 1912, con l’avvento del suffragio universale, già
molto prima, i “pezzi da 90”
avevano fatto sentire il loro peso anche in questo campo. Basti ricordare quell’onorevole
Raffaele Palizzolo, che, nel 1896, costrinse il commissario civile Giovanni Codronchi
[https://books.google.it/books?id=3TXjxQI8sPoC&pg=PT117&lpg=PT117&dq=palizzolo+codronchi&source=bl&ots=0mb1_H2xga&sig=UpBTBjzIukgGGemzdBTUzlxftP4&hl=it&sa=X&ei=raGmVPrcKof1UvO7gdAP&ved=0CCcQ6AEwATgK#v=onepage&q=palizzolo%20codronchi&f=false,
http://www.liberliber.it/mediateca/libri/v/valera/l_assassinio_notarbartolo/pdf/l_assa_p.pdf]
a scarcerare un certo Matisi, imprigionato dopo anni di latitanza, con l’accusa
di numerosi omicidi, il quale, stando in carcere, si era presentato candidato
al consiglio comunale. Liberato con procedura “straordinaria”, il mafioso
Matisi divenne vice-sindaco di Bagheria. Lo stesso onorevole Palizzolo,
commendatore della Corona d’Italia, fu arrestato, l’8 dicembre 1899, come
mandante degli assassini del marchese Emanuele Notarbartolo di San Giovanni,
suo avversario politico.
Nel marzo del 1951, quando la Commissione Senatoriale
Kefauver sollevò il coperchio di New York, cento milioni di americani
spalancarono la bocca di fronte all’enorme marcio che traboccò dal pentolone.
Le responsabilità dell’ex-sindaco William O’Dwyer e del suo fido segretario
James Moran, in materia di abusi amministrativi a favore di mafiosi, quali
Costello, Adonis e Anastasia, risultavano evidenti. Meglio richiudere il
coperchio, per evitare rivelazioni che, forse, avrebbero sconvolto la Nazione
più della Grande Crisi del 1929.
Meglio non conoscerla tutta, la influenza di Mamma Mafia,
nella vita pubblica americana!
Ma torniamo in Sicilia, terra degli avi!
Le stragi susseguitesi attorno al mercato ortofrutticolo di
Palermo, attorno al porto mercantile della medesima città, a Corleone e un po’ ovunque,
nella zona occidentale dell’isola, non si spiegano, completamente, con la
questione della concorrenza commerciale, dell’irrigazione negli agrumeti, degli
abigeati. Né basta il meccanismo delle vendette e delle controvendette, a
spiegare come mai gli ammazzamenti, nelle province mafiose, si intensifichino pressocché
nei periodi che precedono o seguono certi “riordinamenti” politici o certi “cambiamenti”
di indirizzo elettorale.
Morto don Calogero Vizzini di Villalba, indicato per molti
anni, con insistenza un po’ sospetta, come il Gran Capo della Onorata Società,
era facile incontrare in un albergo palermitano di seconda categoria, laconico
e serio, il suo successore: Giuseppe Genco Russo. Che fosse lui, all’epoca, il numero uno della Mafia lo
sapevano tutti in Sicilia, anche i bambini.
Dobbiamo, dunque, credere che una associazione tanto gelosa
dei propri segreti, al punto da eliminare senza pietà chi minacciasse di aprire
bocca, mettesse in vitrina, così facilmente, il suo capo supremo?
Può anche darsi, ma il dubbio è legittimo!
Assai più credibile è che la grande famiglia dei picciotti
onorati, in Sicilia e in America, abbia un Papà “vero”, il cui nome non bisogna
pronunciare perché la Mamma non vuole…
Daniela
Zini
Copyright
© 2 gennaio 2015 ADZ
President
John F. Kennedy
Waldorf-Astoria
Hotel, New York City
April 27, 1961
Mr. Chairman, ladies and gentlemen:
I appreciate very much your generous invitation to be
here tonight.
You bear heavy responsibilities these days and an
article I read some time ago reminded me of how particularly heavily the
burdens of present day events bear upon your profession.
You may remember that in 1851 the New
York Herald Tribune under the sponsorship and publishing of Horace
Greeley, employed as its London
correspondent an obscure journalist by the name of Karl Marx.
We are told that foreign correspondent Marx, stone
broke, and with a family ill and undernourished, constantly appealed to Greeley and managing
editor Charles Dana for an increase in his munificent salary of $5 per
instalment, a salary which he and Engels ungratefully labelled as the “lousiest
petty bourgeois cheating.”
But when all his financial appeals were refused, Marx
looked around for other means of livelihood and fame, eventually terminating
his relationship with the Tribune and devoting his talents full time to the
cause that would bequeath the world the seeds of Leninism, Stalinism,
revolution and the cold war.
If only this capitalistic New York newspaper had treated him more
kindly; if only Marx had remained a foreign correspondent, history might have
been different. And I hope all publishers will bear this lesson in mind the
next time they receive a poverty-stricken appeal for a small increase in the
expense account from an obscure newspaper man.
I have selected as the title of my remarks tonight
“The President and the Press.” Some may suggest that this would be more
naturally worded “The President Versus the Press.” But those are not my
sentiments tonight.
It is true, however, that when a well-known diplomat
from another country demanded recently that our State Department repudiate
certain newspaper attacks on his colleague it was unnecessary for us to reply
that this Administration was not responsible for the press, for the press had
already made it clear that it was not responsible for this Administration.
Nevertheless, my purpose here tonight is not to
deliver the usual assault on the so-called one party press. On the contrary, in
recent months I have rarely heard any complaints about political bias in the
press except from a few Republicans. Nor is it my purpose tonight to discuss or
defend the televising of Presidential press conferences. I think it is highly
beneficial to have some 20,000,000 Americans regularly sit in on these
conferences to observe, if I may say so, the incisive, the intelligent and the
courteous qualities displayed by your Washington
correspondents.
Nor, finally, are these remarks intended to examine
the proper degree of privacy which the press should allow to any President and
his family.
If in the last few months your White House reporters
and photographers have been attending church services with regularity, that has
surely done them no harm.
On the other hand, I realize that your staff and wire
service photographers may be complaining that they do not enjoy the same green
privileges at the local golf courses that they once did.
It is true that my predecessor did not object as I do
to pictures of one’s golfing skill in action. But neither on the other hand did
he ever bean a Secret Service man.
My topic tonight is a more sober one of concern to publishers
as well as editors.
I want to talk about our common responsibilities in
the face of a common danger. The events of recent weeks may have helped to
illuminate that challenge for some; but the dimensions of its threat have
loomed large on the horizon for many years. Whatever our hopes may be for the
future - for reducing this threat or living with it - there is no escaping
either the gravity or the totality of its challenge to our survival and to our
security - a challenge that confronts us in unaccustomed ways in every sphere
of human activity.
This deadly challenge imposes upon our society two
requirements of direct concern both to the press and to the President - two
requirements that may seem almost contradictory in tone, but which must be
reconciled and fulfilled if we are to meet this national peril. I refer, first,
to the need for a far greater public information; and, second, to the need for
far greater official secrecy.
I
The very word “secrecy” is repugnant in a free and
open society; and we are as a people inherently and historically opposed to
secret societies, to secret oaths and to secret proceedings. We decided long
ago that the dangers of excessive and unwarranted concealment of pertinent
facts far outweighed the dangers which are cited to justify it. Even today,
there is little value in opposing the threat of a closed society by imitating
its arbitrary restrictions. Even today, there is little value in insuring the
survival of our nation if our traditions do not survive with it. And there is
very grave danger that an announced need for increased security will be seized
upon by those anxious to expand its meaning to the very limits of official
censorship and concealment. That I do not intend to permit to the extent that
it is in my control. And no official of my Administration, whether his rank is
high or low, civilian or military, should interpret my words here tonight as an
excuse to censor the news, to stifle dissent, to cover up our mistakes or to
withhold from the press and the public the facts they deserve to know.
But I do ask every publisher, every editor, and every
newsman in the nation to reexamine his own standards, and to recognize the
nature of our country’s peril. In time of war, the government and the press
have customarily joined in an effort based largely on self-discipline, to
prevent unauthorized disclosures to the enemy. In time of “clear and present
danger,” the courts have held that even the privileged rights of the First
Amendment must yield to the public’s need for national security.
Today no war has been declared - and however fierce
the struggle may be, it may never be declared in the traditional fashion. Our
way of life is under attack. Those who make themselves our enemy are advancing
around the globe. The survival of our friends is in danger. And yet no war has
been declared, no borders have been crossed by marching troops, no missiles
have been fired.
If the press is awaiting a declaration of war before
it imposes the self-discipline of combat conditions, then I can only say that
no war ever posed a greater threat to our security. If you are awaiting a
finding of “clear and present danger,” then I can only say that the danger has
never been more clear and its presence has never been more imminent.
It requires a change in outlook, a change in tactics,
a change in missions - by the government, by the people, by every businessman
or labor leader, and by every newspaper. For we are opposed around the world by
a monolithic and ruthless conspiracy that relies primarily on covert means for
expanding its sphere of influence - on infiltration instead of invasion, on
subversion instead of elections, on intimidation instead of free choice, on
guerrillas by night instead of armies by day. It is a system which has
conscripted vast human and material resources into the building of a tightly
knit, highly efficient machine that combines military, diplomatic,
intelligence, economic, scientific and political operations.
Its preparations are concealed, not published. Its
mistakes are buried, not headlined. Its dissenters are silenced, not praised.
No expenditure is questioned, no rumor is printed, no secret is revealed. It
conducts the Cold War, in short, with a war-time discipline no democracy would
ever hope or wish to match.
Nevertheless, every democracy recognizes the necessary
restraints of national security - and the question remains whether those
restraints need to be more strictly observed if we are to oppose this kind of
attack as well as outright invasion.
For the facts of the matter are that this nation’s
foes have openly boasted of acquiring through our newspapers information they
would otherwise hire agents to acquire through theft, bribery or espionage;
that details of this nation’s covert preparations to counter the enemy’s covert
operations have been available to every newspaper reader, friend and foe alike;
that the size, the strength, the location and the nature of our forces and
weapons, and our plans and strategy for their use, have all been pinpointed in
the press and other news media to a degree sufficient to satisfy any foreign
power; and that, in at least in one case, the publication of details concerning
a secret mechanism whereby satellites were followed required its alteration at
the expense of considerable time and money.
The newspapers which printed these stories were loyal,
patriotic, responsible and well-meaning. Had we been engaged in open warfare,
they undoubtedly would not have published such items. But in the absence of
open warfare, they recognized only the tests of journalism and not the tests of
national security. And my question tonight is whether additional tests should
not now be adopted.
The question is for you alone to answer. No public
official should answer it for you. No governmental plan should impose its
restraints against your will. But I would be failing in my duty to the nation,
in considering all of the responsibilities that we now bear and all of the
means at hand to meet those responsibilities, if I did not commend this problem
to your attention, and urge its thoughtful consideration.
On many earlier occasions, I have said - and your
newspapers have constantly said - that these are times that appeal to every
citizen’s sense of sacrifice and self-discipline. They call out to every
citizen to weigh his rights and comforts against his obligations to the common
good. I cannot now believe that those citizens who serve in the newspaper
business consider themselves exempt from that appeal.
I have no intention of establishing a new Office of
War Information to govern the flow of news. I am not suggesting any new forms
of censorship or any new types of security classifications. I have no easy
answer to the dilemma that I have posed, and would not seek to impose it if I
had one. But I am asking the members of the newspaper profession and the
industry in this country to re-examine their own responsibilities, to consider
the degree and the nature of the present danger, and to heed the duty of
self-restraint which that danger imposes upon us all.
Every newspaper now asks itself, with respect to every
story: “Is it news?” All I suggest is that you add the question: “Is it in the
interest of the national security?” And I hope that every group in America -
unions and businessmen and public officials at every level - will ask the same
question of their endeavors, and subject their actions to the same exacting
tests.
And should the press of America consider and recommend the
voluntary assumption of specific new steps or machinery, I can assure you that
we will cooperate whole-heartedly with those recommendations.
Perhaps there will be no recommendations. Perhaps
there is no answer to the dilemma faced by a free and open society in a cold
and secret war. In times of peace, any discussion of this subject, and any action
that results, are both painful and without precedent. But this is a time of
peace and peril which knows no precedent in history.
II
It is the unprecedented nature of this challenge that
also gives rise to your second obligation - an obligation which I share. And
that is our obligation to inform and alert the American people - to make
certain that they possess all the facts that they need, and understand them as
well - the perils, the prospects, the purposes of our program and the choices
that we face.
No President should fear public scrutiny of his
program. For from that scrutiny comes understanding; and from that
understanding comes support or opposition. And both are necessary. I am not
asking your newspapers to support the Administration, but I am asking your help
in the tremendous task of informing and alerting the American people. For I
have complete confidence in the response and dedication of our citizens
whenever they are fully informed.
I not only could not stifle controversy among your
readers - I welcome it. This Administration intends to be candid about its
errors; for as a wise man once said: “An error does not become a mistake until
you refuse to correct it.” We intend to accept full responsibility for our
errors; and we expect you to point them out when we miss them.
Without debate, without criticism, no Administration
and no country can succeed - and no republic can survive. That is why the
Athenian lawmaker Solon decreed it a crime for any citizen to shrink from
controversy. And that is why our press was protected by the First Amendment -
the only business in America specifically protected by the Constitution - not
primarily to amuse and entertain, not to emphasize the trivial and the
sentimental, not to simply “give the public what it wants” - but to inform, to
arouse, to reflect, to state our dangers and our opportunities, to indicate our
crises and our choices, to lead, mold, educate and sometimes even anger public
opinion.
This means greater coverage and analysis of
international news - for it is no longer far away and foreign but close at hand
and local. It means greater attention to improved understanding of the news as
well as improved transmission. And it means, finally, that government at all
levels, must meet its obligation to provide you with the fullest possible
information outside the narrowest limits of national security - and we intend
to do it.
III
It was early in the Seventeenth Century that Francis
Bacon remarked on three recent inventions already transforming the world: the compass,
gunpowder and the printing press. Now the links between the nations first
forged by the compass have made us all citizens of the world, the hopes and
threats of one becoming the hopes and threats of us all. In that one world’s
efforts to live together, the evolution of gunpowder to its ultimate limit has
warned mankind of the terrible consequences of failure.
And so it is to the printing press - to the recorder
of man’s deeds, the keeper of his conscience, the courier of his news - that we
look for strength and assistance, confident that with your help man will be
what he was born to be: free and independent.
http://www.youtube.com/watch?v=AKhUbOxM2ik
“Maffia n.
f. Associazione di malfattori costituitasi in Sicilia, la quale si è diffusa in
tutta Italia e, perfino, negli Stati Uniti. Ha dietro le spalle il clero, i
monarchici rimasti fedeli alla causa borbone, perfino dei funzionari e dei
poliziotti. Pratica, soprattutto, estorsioni, sequestrando ricchi privati che
rilascia solo dietro un ingente riscatto.”
Salvatore Lucania (Lercara
Friddi, 24 novembre 1897 - Napoli, 26 gennaio 1962), assunse negli Stati Uniti
il nome di Charles Luciano. Il soprannome Lucky
gli venne attribuito in seguito a un fatto accaduto il 16 ottobre 1929: alcuni
uomini non identificati lo accoltellarono più volte e lo lasciarono in una spiaggia
di Staten Island con la gola squarciata, credendolo morto. Ma Luciano si salvò
e, da allora, tutti lo chiamarono Lucky,
il fortunato.
Contattato
da un produttore cinematografico, interessato a girare un film sulla sua vita,
si diedero appuntamento, il 26 gennaio 1962, all’aeroporto di Capodichino, ove Lucky ebbe un infarto e morì, a 64 anni.
Frank Costello, pseudonimo di Francesco Castiglia [Lauropoli, 26 gennaio 1891 -
New York, 18 febbraio 1973], fu soprannominato “primo ministro della malavita”
dalla stampa statunitense.
Il
2 maggio 1957, subì un agguato da parte di Vincent Gigante, killer di Genovese, che gli sparò alla
testa, mentre camminava verso l’ascensore nell’atrio del suo appartamento di
Manhattan. Colpito di striscio, Costello riuscì a salvarsi e decise di cedere
il comando della sua Famiglia a Genovese, ritirandosi a vita privata.
Frank
Costello morì, il 18 febbraio 1973, per un attacco cardiaco, all’età di 82
anni.
Umberto Anastasio nacque a Tropea, il 26 settembre 1902. Nel 1919, si trasferì
clandestinamente negli Stati Uniti insieme al fratello Antonio, venendo assunto
come scaricatore di porto a Brooklyn. Fu qui che Anastasio iniziò a occuparsi
di attività illecite insieme al fratello, venendo arrestato nel 1920 per
l’omicidio di un collega.
Nel
1957, Anastasia scelse il suo capodecina Carlo Gambino come vicecapo dopo aver
fatto assassinare il suo predecessore Frank Scalise. Gambino, tuttavia, si legò
troppo a Vito Genovese, che mirava a prendere il comando della Famiglia di
Frank Costello. Lo scopo dei due era quello di eliminare Anastasia e Costello
per rilevarne le rispettive Famiglie.
Il
2 maggio 1957, Costello venne ferito di striscio da un killer di Genovese e decise di cedergli il comando della Famiglia.
Infine,
Genovese e Gambino ordinarono anche l’omicidio di Anastasia.
La
mattina del 25 ottobre 1957, Anastasia andò dal suo barbiere al Park Sheraton
Hotel, accompagnato dal suo guardaspalle, che si dileguò subito perché
d’accordo con i killers. Appena si
sedette sulla poltrona, entrarono i due killers
che lo uccisero a colpi di pistola. Dopo l’uccisione di Anastasia, il comando
della sua Famiglia passò a Carlo Gambino.
Maria Sofia di Wittelsbach
nacque a Possenhofen, in Baviera, il 4 ottobre 1841 da Massimiliano, duca in
Baviera, e da Ludovica di Baviera. Era alta, con occhi neri, folti capelli
castani e un bel viso. Come la sorella Elisabetta (Sissi), futura imperatrice
d’Austria, era solita uscire da sola, cavalcare, tirare di scherma; praticava
il nuoto, la danza e il tiro con la carabina. Dal padre aveva ereditato l’amore
per gli animali: in particolare cavalli, cani e pappagalli. Le trattative per
il matrimonio con Francesco di Borbone, erede al trono napoletano, furono
condotte in segreto dalla duchessa Ludovica e dalla regina delle Due Sicilie,
Maria Teresa d’Asburgo Lorena, interessata a consolidare i legami con l’Impero
asburgico. Il matrimonio fu celebrato per procura, l’8 gennaio 1859, nel
palazzo reale di Monaco.
Morì
a Monaco il 18 gennaio 1925. Le sue spoglie, insieme con quelle del marito e
della figlia, nel 1938, furono traslate, a Roma, e, nel 1984, a Napoli, nella
Basilica di Santa Chiara.
Francesco Starrabba, principe di Giardinelli, imparentato con il principe di
Sant’Elia, era stato membro del Comitato rivoluzionario tra la fine del 1859 e
i primi del 1860; arrestato insieme ad altri nobili, dopo il fallito moto del 4
aprile 1860 [Rivolta della Gancia] fu liberato con l’entrata dei Mille, a
Palermo, e prese parte alla spedizione di Giuseppe Garibaldi, conclusasi
sull’Aspromonte.
Il
primo nome che registriamo della famiglia Starrabba è quello del capostipite,
intorno al 1300, il magnifico Starab, i cui figli Anselmo e Ludovico sono
maestri di camera della regina Eleonora d’Angiò, nel 1310. Tra i personaggi
illustri di questa famiglia, Antonio Starrabba, marchese Di Rudinì,
(1839-1908), più volte ministro e presidente del consiglio del ministri, nonché
sindaco di Palermo, figlio di Francesco Paolo marchese di Rudinì, conte di
Pachino, che, nel 1848, a
Palermo, aveva presieduto il comitato per la raccolta fondi in preparazione
della guerra contro i Borboni. Antonio Starrabba, marchese Di Rudinì, fu uno
dei massimi esponenti della Destra storica, in italia, e si alternò alla guida
del governo italiano a Francesco Crispi e Giovanni Giolitti.
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