“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

venerdì 2 gennaio 2015

SOCIETA' SEGRETE II. LA MAFIA 4. MAMMA COMANDA PICCIOTTO VA E FA' di Daniela Zini



“He who controls the past controls the future.
He who controls the present controls the past.”
George Orwell, 1984
SOCIETA’ SEGRETE

“In politics, nothing happens by accident. If it happens, you can bet it was planned that way.”
Franklin D. Roosevelt


all’Associazione Antiracket di Mazara del Vallo
“Oggi sappiamo che il rapporto tra Mafia e Politica è il cuore del problema. Soprattutto in un momento storico come questo, in cui lo Stato è riuscito a colpire duramente l’ala militare di Cosa Nostra, ci si deve rendere conto che per sconfiggere definitivamente la Mafia è assolutamente necessario recidere i suoi rapporti con la Politica.”
Nino Di Matteo


 
“Chi tace e chi piega la testa muore ogni volta che lo fa, chi parla e chi cammina a testa alta muore una volta sola.”
Giovanni Falcone

ai Magistrati e alle Forze dell’Ordine, che, quotidianamente, sono impegnati nella lotta alla criminalità organizzata.
A chi sostiene che tanto non cambierà mai nulla, vorrei dire:
“Il problema siamo tutti noi che non facciamo nulla.
Stabiliamo una presenza costante o avremo una costante violenza.
Meglio provare e non riuscire che non riuscire a provare!”
Daniela Zini


 
Crediamo, veramente, di conoscere tutto ciò che accade sul nostro pianeta?
Gli uomini che occupano uno spazio di primo piano sulla scena politica dispongono di un potere reale?
Il mondo degli affari è viziato da società segrete?
Molti sostengono che potenti personaggi esercitino un controllo assoluto su tutti gli eventi mondiali.
È il problema essenziale che tratteremo in questa inchiesta, dove si dimostra, attraverso una serie di esempi stupefacenti, che la sorte delle Nazioni dipende, sovente, dalla volontà di gruppi di uomini che non hanno alcuna funzione ufficiale. Si tratta di società segrete, veri cripto-governi, che reggono la nostra sorte a insaputa di tutti. La loro esistenza non può essere avvertita che quando un fatto imprevisto li obbliga ad agire alla luce del sole.
Circa due anni e mezzo prima del suo assassinio, il 27 aprile 1961, John Fitzgerald Kennedy tenne ai rappresentanti della stampa, riuniti presso l’Hotel Waldorf-Astoria di New York, un discorso incentrato sulla analisi e sul pericolo della Guerra Fredda [http://www.youtube.com/watch?v=PFMbYifiXI4][1], tuttavia, alcuni suoi passaggi, sembrano alludere, non alla sfida acerrima contro l’Unione Sovietica, ma a qualcosa di altro di più oscuro e di più pericoloso.
“[…] La stessa parola “segretezza” è ripugnante in una società libera e aperta; e noi, come popolo, siamo intimamente e storicamente contrari alle società segrete, ai giuramenti segreti e alle procedure segrete. Abbiamo deciso, molto tempo fa, che i pericoli di un eccessivo e ingiustificato occultamento di fatti pertinenti superino, di gran lunga, i pericoli che vengono invocati a giustificazione. […]”
La storia è costellata di enigmi intorno alle società segrete, che si tratti di potenti organizzazioni economiche, sociali, politiche o di clubs privati riservati a una élite.  
Pressoché tutte le civiltà sono state, in un’epoca o in un’altra, il rifugio di queste società dell’ombra: riunioni dietro porte chiuse, divieto di rivelare ciò che si dice all’esterno, sospetto a ogni gesto o parola di uno dei membri...
Il mistero di cui le società segrete si ammantano non è avulso dall’interesse che suscitano appena se ne parli.
E se si cercasse di squarciare questo mistero?
Che ne è della sedicente influenza delle società segrete attraverso la storia?
Sono state, sono così potenti come si pretende?
Vi è motivo di temerle?
Tante domande alla partenza di una appassionante incursione nel cuore delle società segrete più celebri della storia.
In questo reportage, solidamente documentato, penetreremo all’interno delle società segrete più conosciute, riassumendone la storia, descrivendone i riti di iniziazione, i segni e il linguaggio, che sono loro propri.
Se le voci che circondano le società segrete, rispondono, in parte, alla sete di meraviglioso, che ci viene dalla nostra infanzia, contribuiscono, troppo sovente, ad assumere un pensiero non critico, che degenera, facilmente, in paranoia.  
Dedicare una inchiesta alle società segrete in un mondo, in cui la cultura del segreto [di Stato, scientifico, nucleare, ecc.] viene, incessantemente, a ricordarci che, in quanto semplici cittadini, noi restiamo fuori degli arcani di una conoscenza superiore, cui solo gli “eletti” [capi di Stato, militari, diplomatici, spie, ecc.] possono accedere, mi è sembrata una idea luminosa e illuminante.
Non sono, certo, la prima, tuttavia, i miei predecessori sono stati, sovente, credibili, ma discutibili, perché, occorrendo un inizio di cui non si aveva prova, questo è stato, sovente, su un continente scomparso o su un disco volante.
Una delle numerose tesi ricorrenti sulle società segrete è che le suddette società segrete funzionino come le nostre società “reali”, di cui rappresentano dei doppi sovversivi, critici, inaccessibili, ma anche necessari per controbilanciare l’ordine mondiale, governato dai poteri temporali, sensatamente trasparenti, perché eletti secondo principi democratici.
Scrive Georg Simmel:
“Le società segrete sono, per così dire, delle repliche in miniatura del “mondo ufficiale”, al quale resistono e si oppongono.”
L’inizio delle società segrete si perde, necessariamente, nella rarefazione delle tracce di un passato sempre più lontano: Grecia, Egitto dei faraoni neri, Sumer e, forse, oltre…
“In principio era il buio.”
Sarebbe stato più comodo iniziare dalla fine, giacché le società stesse sono alla ricerca delle loro origini.
“Poi fu la luce.”
Allorché si ergeva nella direzione da cui veniva la luce, l’uomo era in contatto con il divino e le difficoltà materiali della vita, che, forse, formavano, allora, una unica cosa, ma che sarebbero divenute, con la nascita del verbo e il risveglio dell’uomo alla parola, i due  poli della sua esistenza. 
Nessuno sa quanto tempo l’uomo sia vissuto al riparo del dubbio neppure se ne sia stato, mai, abitato.
Ma che la sua prima parola sia stata un inno alla natura o una espressione del suo bisogno alimentare… ben presto, l’uomo iniziò a tentare di condividere le proprie idee con i suoi fratelli e, ben presto, i più sottili di questi concetti richiesero più che parole: la trasmissione dell’esperienza e, dunque, l’iniziazione.
È possibile che le prime iniziazioni abbiano riguardato il modo di sopravvivere nella divina natura circostante. O che abbiano trasmesso la certezza di un mondo spirituale nascosto dietro la materia.
Nell’Antichità, i culti misterici si svilupparono e conobbero un grande favore nel mondo greco-romano.
In seguito, il Medioevo, teatro di guerre di religione, dette vita ai misteriosi Templari.
Nel Rinascimento, le società segrete assunsero tutta un’altra dimensione con il leggendario ordine dei Rosa-Croce e, soprattutto, con la nascita della Massoneria.
Il XIX secolo segna, ancora, un’altra svolta: la proliferazione delle società segrete, che hanno, come corollario, legittimazioni, prestiti sempre più diversificati e una attrattiva per la razionalità scientifica. 
Il periodo contemporaneo è segnato da una moltiplicazione di società segrete, in particolare nell’era di Internet, con possibili derive settarie a apocalittiche.
La storia delle società segrete ha una importante influenza sulla storia. Esiste una versione ufficiale della storia, versione detta esoterica, che tiene conto delle società segrete, perché sono, sovente, uscite dall’ombra.
Ma ciò che questa storia non dice sono le ragioni segrete dei loro interventi.
E, per comprenderle, è alla storia esoterica che bisognerà interessarsi.
Queste società segrete sono, profondamente, legate alla magia, a partire dai documenti più antichi in nostro possesso.
Vi farò la grazia, tuttavia, di farne ricadere la colpa, come è, sovente, il caso, sui massoni, sui sionisti o su Satana.
Andrò, subito, al cuore del problema, esprimendomi senza ambage, senza temere di affrontare i sistemi criminali, basati sul controllo, il potere e la manipolazione. 
Un nuovo modo di considerare il mondo in cui viviamo! 
  

II. LA MAFIA
 
di
Daniela Zini


SOCIETA’ SEGRETE I. LA CAMORRA 1. LA CAMORRA
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE I. LA CAMORRA 2. L’ANNORATA SOCIETA’
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE II. LA MAFIA 1. LA MAFIA AL CUORE DELLO STATO
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE II. LA MAFIA 2. LA ONORATA SOCIETA’
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE II. LA MAFIA 3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano Massoneria . Parte Prima -
di Daniela Zini

 
4. MAMMA COMANDA PICCIOTTO VA E FA’
 
Giuseppe Petrosino, detto Joe [Padula, 30 agosto 1860 - Palermo, 12 marzo 1909]

In un rarissimo dizionario siciliano-italiano, pubblicato a Palermo, nel 1838, la parola Mafia non si trova. Si incontra soltanto in una ristampa dell’opera, datata 1888. La Mafia vi è definita, molto sbrigativamente e vagamente, con due sole parole: braveria, baldanza.
Un po’ poco!
Al contrario, in un curioso Dictionnaire d’occultisme et des sociétés secrètes, pubblicato, nel 1897, in Francia, ad Angers, a cura di Ernest Desormes e di Adrien Basile, si legge:
“Maffia n. f. Association de malfaiteurs qui, existant en Sicile, s’est répandue dans toute l’Italie et même aux Etats-Unis; elle a pour elle le clergé, les royalistes restés fidèles à la cause bourbonienne, même des fonctionnaires et des policiers, et se livre surtout à des extorsions, en capturant de riches particuliers qu’elle ne rend que contre une forte rançon.”[2][http://osmth-gisors.fr/livres/dictionnaire-occultisme.pdf]
Non è molto, ma è già qualcosa!
Notevole, soprattutto, la allusione alla filiale americana della Onorata Società. Desormes e Basile furono, con ogni probabilità, i primi a farne cenno e il fatto che Basile fosse un palermitano emigrato, in Francia, aggiunge alla citazione il peso di una diretta competenza.
Si rifletta un momento…
Nel 1908, un tenente della polizia di New York, Giuseppe Petrosino, si presentò al sindaco della città e gli tenne, più o meno, il seguente discorso:
“Di fronte allo straordinario numero di delitti di ogni genere, dal taglieggiamento all’omicidio, che si verificano, ogni giorno, a Brooklyn e dovunque vivano emigrati italiani, voi tirate in ballo una misteriosa e fantomatica Mano Nera. I miei genitori erano entrambi siciliani, quindi, la so abbastanza lunga. La Mano Nera esiste, soltanto, nella immaginazione popolare, esattamente come l’Uomo Nero, inventato per spaventare i bambini. In realtà, dietro i ricatti, le violenze e gli assassinii che ci preoccupano, vi è una associazione a delinquere perfettamente organizzata, con solide gerarchie e leggi precise. Si chiama Mafia. È squisitamente siciliana e non va confusa con la Camorra di Napoli. Date retta a me, signor sindaco: se vogliamo risolvere il problema, dobbiamo cominciare da Palermo.”
Quando i giornali riferirono dell’intervento di Petrosino, l’opinione pubblica, particolarmente la siculo-americana, sogghignò del coraggioso ufficiale e, in qualche caso, si mostrò addirittura offesa, scandalizzata.
“Non esiste delinquenza organizzata, negli Stati Uniti!”,
si gridò.
“La Mafia è una favola!”
Soltanto il capo della polizia di New York, il generale Theodore A.  Bingham, avvocato, democratico e massone, diede credito alla tesi di Petrosino, che, com’è noto, partì in missione segreta alla volta del capoluogo ligure, alle 16.00 del martedì 9 febbraio 1909.
L’Araldo Italiano, il giornale per gli italiani d’America, strombazzava:
“Il Petrosino si reca in Italia per studiarvi quei regolamenti di pubblica sicurezza. Si dice che a Bologna si fermerà per avere cognizioni sulla criminologia, sulla pena di morte e sulle belle mortadelle. A Firenze si tratterrà per osservare le carceri dell’antico palazzo del Bargello e il fiasco paesano. A Napoli per la camorra, la malavita e i maccheroni alle vongole. A Palermo per la mafia e le squisite cassate alla siciliana. A Torino si fermerà per i barabba e i grissini. A Milano per la teppa e la busecca. A Venezia per i terribili Piombi e la zucca barucca. A Roma per il Colosseo e l’abbacchio.”
Sulla Duca di Genova, viaggiava sotto il nome di Simone Velletri e alloggiava nella cabina di prima classe numero 10.
Con sé due valigie nuove di cuoio giallo, in una delle quali, la pistola d’ordinanza, una Smith & Wesson calibro 38.
Petrosino sbarcava, a Genova, con circa 26 ore di ritardo, alle 6 della domenica 21 febbraio 1909. Prendeva, poi, un treno per Roma, ove giungeva alle 20.20 e fissava la camera numero 9, per 6 lire a notte, nell’Hotel Inghilterra, in via Bocca di Leone, con il nome di Gugliemo Simone. Prendeva, quindi, contatto con il capo di gabinetto di Giovanni Giolitti, Camillo Peano, e il capo della polizia, Francesco Leonardi.
Il 26 febbraio, inviava il primo rapporto all’assessore Bingham:

“Caro assessore Bingham, sono giunto a Roma alle 8.20 p.m. del 21 corr. ma essendo l’anniversario della nascita di Washington e contemporaneamente la festa del carnevale romano, che è durata due giorni, non ho potuto vedere alcuna delle persone cui dovevo rivolgermi. Alfine, grazie ai buoni uffici dell’Ambasciatore americano, ho potuto essere presentato al Ministro degli Interni on. Peano con il quale ho avuto una conversazione sui criminali italiani e sulle loro malefatte negli USA. Egli si è tanto interessato alla questione che ha dato disposizione al Capo della Polizia, S.E. Francesco Leonardi, di ordinare tassativamente ai Prefetti, Sottoprefetti e Sindaci di tutto il Regno di non rilasciare passaporti ai criminali italiani diretti negli USA. Mi ha anche dato una lettera indirizzata a tutti i Questori della Sicilia, Calabria e Napoli, con l’invito a facilitarmi in ogni modo nell’adempimento della mia missione. Sia il Ministro che il Capo della Polizia, avevano già sentito parlare di me. Ho anche mostrato loro l’orologio d’oro donatemi dal Capo italiano, come sapete.
Caro generale, il viaggio è stato molto brutto: per quasi tutta la durata il tempo è stato cattivo. La nave ha avuto ventisei ore di ritardo e io non mi sento troppo bene, per cui, prima di mettermi concretamente al lavoro, mi prenderò un paio di giorni di riposo. Quando sarò a Palermo per iniziare il “lavoro”, vi informerò costantemente dei risultati. Augurando una vita lunga e felice a voi e al signor Woods [assistente di Bingham, ndr] rimango vostro devotissimo
Giuseppe Petrosino”[3]
La domenica 28 febbraio 1909, Petrosino arrivava a Palermo, alle 8, con il postale proveniente da Napoli. Prendeva alloggio, sotto il falso nome di Simone Valenti di Giudea, nella stanza numero 16 dell’Hotel de France, in Piazza Marina, e, sospettando che la Mafia, spingendo i suoi tentacoli tra il personale dell’albergo, gli intercettasse la corrispondenza, fissò il suo recapito postale presso la segreteria della Banca Commerciale, i cui impiegati erano, in prevalenza, settentrionali.
Durante la sua permanenza palermitana, in una lettera alla moglie, scriveva:

“Carissima moglie, sono arrivato in Palermo, mi trovo tutto confuso e mi pare mille anni di ritornare.
Non mi piace affatto tutta l’Italia che poi quando ne vengo ti spiego.
Dio, Dio che miseria!
Sono stato malato cinque giorni. C’era l’influenza e sono dovuto stare a Roma, ma adesso mi sento bene. Dunque tutte le comunicazioni mandale alla Banca Commerciale di Palermo che questa è la mia direzione.
Saluta Angelina, Luigi.
Bacia cugino Arturo come pure mio fratello Antonio con la sua famiglia.
Compare Carlucci e la sua famiglia. Saluta tua sorella e suo marito.
Alla mia cara Bambina e a te mille e mille abbracci.”

Nonostante queste precauzioni, il 12 marzo 1909, tre colpi di pistola in rapida successione e un quarto sparato subito dopo fulminarono il quarantanovenne poliziotto[4], a circa venti metri dal monumento a Giuseppe Garibaldi, in Piazza Marina, nella zona occidentale di Palermo. Cinque giorni prima, Petrosino aveva fatto sapere all’assessore Bingham che le sue indagini stavano approdando a risultati “sbalorditivi”.
Dunque, Petrosino, puntando il dito sulla Mafia, aveva visto giusto.
La sua morte ne era la riprova.
D’altra parte, il professor Basile aveva già, stabilito, nel suo dictionnaire, dodici anni prima, lo stretto rapporto tra malavita siciliana in America e Mamma Mafia.
E nonostnte ciò, per altri quaranta anni, la questione della delinquenza organizzata negli Stati Uniti e della Mafia, torna nell’ombra, svanisce.
Riaffiora, quasi improvvisamente, nel 1950, quando l’opinione pubblica americana la rimette, clamorosamente, in tavola, con esclamazioni di sorpresa, come se si trattasse di una incredibile novità. È il momento della famosa Commissione Kefauver, composta da senatori e probiviri, incaricata di rivedere le bucce ai “pezzi grossi” del gangsterismo. Non ci vuole molto a constatare, purtroppo, che lo stato maggiore dell’Anonima Delitti è composto, prevalentemente, da italiani, provenienti dall’estremo meridione. Si chiamano Charles Lucky Luciano [Salvatore Lucania][5], Frank Costello [Francesco Castiglia][6], Joe Adonis [Giuseppe Antonio Doto][7], Albert Anastasia [Umberto Anastasio][8], Antonino Accardo[9], Paul Ricca The Waiter, Giuseppe Fiaschetti, Joseph Charles Fusco, cugino di Al Capone, e così via.
Mamma Mafia, tenebrosa orchidea sbocciata sullo zolfo siciliano, ha qualcosa di caratteristico: come certi odori e certi sapori che non restano nel naso e nel palato, non resta nella memoria.


Charles Lucky Luciano

Bisogna, sempre, riprovarla per credervi: sia in Sicilia, sia altrove.
Poiché i suoi interessi “interni” si innestano ad altri più vasti e generali, di natura specialmente politica, vi è, sempre, qualcuno, in “alto loco” che la aiuta a camuffarsi e a far perdere le sue tracce.
Non è neppure facile fissare i lineamenti storici della potentissima associazione. L’origine stessa del suo nome è incerta. Alcuni filologi la trovano in una espressione toscana, maffia, che vuol dire miseria nera. Altri nel vocabolo francese mauvais, certamente assai diffuso, in Sicilia, prima dei Vespri. Altri ancora ritengono che la radice del temutissimo nome sia araba: i Mà-afir erano una tribù berbera, stabilitasi nei dintorni di Palermo, al tempo dei Mori.     
Talvolta, gli approfondimenti storici, di massima indispensabili a comprendere la realtà in cui si vive, eccedono nell’astrazione. Nel caso della Mafia si può perdere il contatto con l’“attualità” del fenomeno viaggiando troppo all’indietro nei secoli. Non vi è dubbio che il discorso possa anche iniziarsi dalle più remote manifestazioni del brigantaggio siciliano, considerato sia come attività puramente criminale, sia come risultato di una protesta sociale, di una ribellione di povera gente contro il dispotismo dei ricchi, dei feudatari, dei “Baroni” e dei loro scagnozzi.
L’unione fa la forza.
È una delle più antiche scoperte dell’Umanità.
È, quindi, molto probabile che, già, al tempo dei Normanni, i miseri siciliani si riunissero in leghe e associazioni clandestine, per fronteggiare, collettivamente, la prepotenza schiacciante dei “Signori”. Possiamo anche ammettere che tali leghe, nei bisbigli del popolo, fossero, genericamente, indicate con il nome di “Mafia”. Ma prendendola così, alla lontana, rischiamo di imboccare un viottolo secondario o un vicolo cieco, anziché la strada maestra.
Circa le origini, i fattori formativi e gli sviluppi della Mafia, abbiamo a disposizione decine e decine di saggi e di monografie, tutte apparse negli ultimi centocinquanta anni. Dallo studio di Giuseppe Ciotti, I casi di Palermo, datato 1866  [http://books.google.it/books?id=n88vAAAAYAAJ&printsec=frontcover&hl=it&source=gbs_ge_summary_r&cad=0#v=onepage&q&f=false], a quello di Gaetano Mosca[10], pubblicato con il titolo Che cos’è la mafia, nel 1900, dal Giornale degli economisti; dalle fondamentali pagine di Napoleone Colajanni, apparse nel 1894, a quelle, non meno interessanti, scritte, nel 1956, dal generale dei carabinieri Renato Candida[11].
Una bibliografia ricchissima.
Tutti sono d’accordo, a parte le interpretazioni politiche, sul carattere “feudale” della Onorata Società.
Le radici di Mamma Mafia sono, tenacemente, profondamente conficcate nella secolare, atavica sfiducia degli isolani circa l’efficienza e l’imparzialità della Giustizia ufficiale.
Durante il Medioevo, quando il “Sinore” era padrone assoluto di terra, uomini e cose, l’oscura gente del feudo, sottoposta a ogni genere di vessazioni e di capricci, trovò indubbiamente un minimo di sicurezza nelle intese segrete, nei patti di reciproca asistenza, nelle vendette. Sprattutto in quella inviolabile legge del silenzio di fronte alle autorità costituite, che è l’omertà.
Nel 1812, quando il feudalesimo fu abolito, più sulla carta che di fatto, e un quarto della terra appartenente ai “Baroni” (il quarto peggiore) fu ceduto ai Comuni, nulla, praticamente, cambiò. Con l’aggravante che le “squadre d’armi”, costituite dai feudatari per affermare con la forza la “loro” legge, restarono disoccupate e si buttarono al brigantaggio per sopravvivere. Il Borbone fu ben presto a riassorbirle, trasformandole in “compgnie d’armi”: reparti che non appartenevano né all’esercito né alla polizia, addetti alla sicurezza pubblica, nelle campagne, con un sistema di “appalto”. Il comandante di compagnia era autorizzato a riscuotere “tangenti” dai piccoli proprietari, creati dalla riforma agraria, in cambio di “vigilanza” a parte il crisma legale e la “cauzione” regolarmente versata dal capitano all’amministrazione borbonica, il meccanismo era identico a quello della “protezione” mafiosa. Tanto è vero che, nel 1877, allorché il ministro Giovanni Nicotera abolì, definitivamente, le “compagnie”, queste, respinte nell’illegalità, come era, già, avvenuto, nel 1812, continuarono a “lavorare” nell’ombra, intessendo una fitta rete di ricatti, intimidazioni e rappresaglie. Proprio per proteggersi da quei “protettori”, i grossi e medi terrieri furono costretti ad assoldare i cosiddetti “campieri”, guardie private addette alla sorveglianza del fondo e del bestiame.
La Mafia, che, per alcuni secoli, fu più che altro una condizione latente, uno stato d’animo dei siciliani, si coagulò attorno ai residui, ai moncherini delle organizzazioni feudali. L’omertà, ferrea legge degli oppressi, divenne legge comune. In un gioco mal decifrabile di prepotenze accettate come legge e di leggi considerate prepotenze, la Onorata Società acquistò forma, consistenza, gerarchia e potenza. Passò dallo stato fluido a quello solido. Unificò, un po’ alla volta, bande, combriccole di malviventi e associazioni a delinquere, ovviamente interessatea collaborare e a darsi manforte.
Nel 1890, il questore di Palermo scoprì che le principali “fratellanze” mafiose della Sicilia occidentale, i “Fratuzzi” di Bagheria, gli “Stupagghieri” di Monreale, gli “Oblonici” di Agrigento, i Fratelli di Favara, gli “Scagghiuni” di Enna e la “Nuova Fontana” di Misilmeri, in apparenza indipendenti, erano, in realtà, strettamente collegate. Per la prima volta, i giornali, citando la Mafia, adoperarono la emme maiuscola e iniziarono a distinguerla dal banditismo.
Uno degli elementi che confonde maggiormente le idee, in fatto di mafia, antica e moderna, è proprio il brigantaggio. Il brigante siciliano, dal Vendicatore dei Poveri, Antonio Catinella, detto Saltaleviti, impiccato a Palermo, nel 1706, fino al Re di Montelepre, Salvatore Giuliano, eliminato, il 5 luglio 1950, può essere uno strumento della Mafia, che lo appoggia finché gli è utile, ma non appartiene quasi mai alle gerarchie della Mafia. È un concetto fondamentale, senza il quale non è possibile comprendere la vera natura della Onorata Società.
Si sente spesso dire, particolarmente, da parte di maggiorenti siciliani:
“La Mafia, signori miei, non esiste!
È romanzesco, infantile pensare che tanti episodi di delinquenza comune, completamente staccati l’uno dall’altro, abbiano la stessa sovrintendenza. Esistono i mafiosi, se i malfattori volete chiamarli così. La Mafia, no.”
Ammettendo che sia fatto in buona fede, è un discorso ingenuo.
Implica la nascosta convinzione che la Mafia abbia una sua immutabile fisionomia e certe immutabili finalità.
Niente di meno vero!
Gli unici caratteri fissi e invariabili della associazione, detta affettuosamente Mamma dai suoi accoliti, sono l’organizzazione e il ferreo rispetto alle gerarchie.
Caratteri interni, “costituzionali”.
Il perché, il come, per chi debbano agire gli affiliati, pronti a muoversi a un cenno, è cosa che riguarda soltanto i “pezzi grossi”, i “capi”, i “maestri”.
La Mafia è una gigantesca macchina, dagli ingranaggi intenzionali, disposta a servire qualsiasi causa le assicuri danaro, vantaggi, privilegi e, soprattutto, immunità. Tanto è vero che i picciotti, entrando a farne parte, attraverso quei piccoli gruppi, quelle ristrette cellule di non oltre  dodici elementi, chiamati cosche, giurano, pena la vita, di mantenersi fedeli alla Società e di obbedire subito, senza esitazioni, a qualsiasi ordine venga loro impartito dai “superiori”; anzi dal “superiore” diretto, portavoce di più alte, mitologiche autorità. Non giurano mai, in nessun caso, di restare fedeli a una “causa”, a una “missione”.   
Il nocciolo della questione si può chiudere in sei parole:
“I mafiosi passano, la Mafia resta.”
A questo punto, è possibile capire con chiarezza perché la Mafia, in molte occasioni, si presenti in posizioni diverse, perfino contraddittorie. Perché, di tanto in tanto, alcuni dei suoi membri effettivi o ausiliari vengano improvvisamente tolti di mezzo, con uno scatenarsi di violenza, che, talvolta, assume le proporzioni della strage. Perché i killers, i sicari, i boia dell’associazione siano pronti a eliminare, senza battere ciglio, chiunque venga loro semplicemente indicato.
Allorchè, nel 1860, Giuseppe Garibaldi sbarcò con i suoi Mille, la Onorata Società si divise su due fronti: quello borbonico e quello patriottico. Questo, almeno, è ciò che comunemente si crede e si dice.
Ma è un errore.
In realtà, non fu la Mafia a dividersi in due.
Non vi furono mai “due” Mafie, una contro l’altra.
Si verificò, invece, che la Mafia, unica sola, al di sopra della mischia, diretta da “galantuomini” rispettati e insospettati, giocasse su due colori per non perdere in nessun caso.
Il doppio gioco è assai più antico del 1944-1945!
Quando Garibaldi vinse la partita, i picciotti in camicia rossa restarono; quelli che avevano combattuto dall’altra parte obbedirono al:
“Si salvi chi può!”
Emigrarono in Tunisia, in Francia, in Egitto.
A migliaia, tra i quali la cosca dei Candela, quella dei Cusumano, dei Matranga e dei Bacula, superarono l’Atlantico e si stabilirono in America. Resta, tuttavia, ancora da spiegare chi li aiutò, a corto di fondi e di cognizioni come erano, a lasciare l’isola, ormai controllata dal Leone di Caprera e dai funzionari, prontamente passati al suo servizio.
Chi, se, non lei, la Mamma, la Mafia?
La stessa che, nel nostro tempo, all’occorrenza può spedire i suoi emissari in qualsiasi parte del mondo, dall’oggi al domani, con qualsiasi mezzo, senza passaporto, senza il più comune documento di identità, perfino, senza farli risultare nell’elenco dei passeggeri…
Ma torniamo alla Sicilia di un secolo fa!
Nel 1863, tre anni dopo l’annessione al Regno d’Italia, la detronizzata regina delle due Sicilie, Maria Sofia di Wittelsbach[12], stabilitasi a Roma, organizzò un estremo tentativo di restaurazione, giocando sul malumore e sul risentimento dei “Baroni”, molti dei quali, in un primo tempo, avevano appoggiato Garibaldi, con la speranza di grossi vantaggi e, in seguito, delusi, si erano messi a cospirare contro il governo sabaudo. Anche l’“autonomismo”, nelle cui fila militavano numerosi ex-garibaldini, portava acqua al mulino di Maria Sofia. Risulta dalle cronache che la regina stipendiò, quali agenti provocatori e organizzatori di attentati, i fratelli Giona e Cipriano La Gala, Domenico Papa e Giovanni D’Avanzo [http://archive.org/stream/processodeibrig00unkngoog/processodeibrig00unkngoog_djvu.txt].
Quando, il 10 luglio 1863, fallito il colpo di mano, i quattro vennero arrestati nel porto di Genova, mentre tentavano di espatriare, sotto falso nome, a bordo del piroscafo francese Aunis, ebbe inizio un complicato caso diplomatico, con interminabili proteste, note, contronote e controproteste, tra Parigi e Torino.
La sentenza emessa il 13 marzo 1864, condannò D’Avanzo a venti anni di reclusione, Domenico Papa ai lavori forzati, Giona e Cipriano La Sala alla pena di morte. Ma l’avvocato Cecaro sa di poter tentare ancora una carta.
I La Gala dietro suo consiglio, indirizzano a Francesco II una supplica:

A Sua Real Maestà
Francesco II Re del Regno delle Due Sicilie
Sire Magnanimo,
Cipriano e Giona La Gala prostrati ai sacri pié di V. M. umilmente espongono come essi, fin dal 10 luglio ‘63 arrestati abusivamente in Genova, tradotti in S. Maria unitamente agli altri due colleghi Giovanni D’Avanzo e Domenico Papa, sono stati gli esponenti condannati a morte e gli altri due, uno cioè il D’Avanzo ad anni 20 di ferri e l’altro Papa ai ferri a vita. Cosicché vedendosi gli oratori con i ferri ai piedi ed alle mani già in cappella, supplicano la carità a V. M. degnarsi parlarne al Papa ed al suo Ministro Antonelli come a ludibrio del suo passaporto vidimato dai consoli francese e spagnolo, sono ridotti in tale stato previo un arresto abusivo. Cosicché trattandosi di morte e trattandosi essere inciampati in mano ad un governo nemico, supplicano V. Maestà cooperarsi col Ministro Pontificio interporre i suoi uffici colla Francia e liberare perchè giusto, i quattro condannati, cioè i Della Gala a morte e il D’Avanzo Giovanni ai ferri per anni 20 ed il Papa Domenico ai ferri a vita. V. Maestà può se vuole, stante che tutta la ragione è dal canto dei supplicanti e si tratta di morte a ludibrio della savia convenzione diplomatica del 1838 cui è favorevole ai supplicanti intorno all’omissione politica art. 6. Di tanto espongono e l’avranno a grazia speciale mentre non riusciva mica difficile ad un governo nemico esacerbato contro i medesimi di farli trovare colpevoli e di intrigarli come egli voleva. Essi si raccomandano alla giustizia di V. Maestà, quali hanno ragione per essere stati abusivamente presi in terreno straniero, contro ogni legge divina ed umana ed internazionale. L’avrà a grazia speciale come da Dio. Gli umilissimi sudditi di Vostra Maestà Cipriano e Giona La Gala non che Giovanni D’Avanzo e Domenico Papa supplicano come sopra.


Giona e Cipriano La Gala

E, attraverso gli opportuni canali diplomatici, fu fatta opera di persuasione e la condanna a morte dei La Gala, nel successivo ricorso alla Cassazione, fu commutata nei lavori forzati a vita.
Doveva finire così!
Gli stessi magistrati sapevano che non avrebbero potuto ottenere di più…
Risultò, tuttavia, dalle indagini, svolte per ordine del ministro Marco Minghetti[13], che i quattro arrestati avevano, sempre, seguito le direttive dell’ispettore di pubblica sicurezza Francesco Daddi, sedicente “autonomista mazziniano”, ma, in realtà, lunga mano della Mafia nella polizia.
Daddi, che era stato arrestato, il 13 marzo 1863, ammise di conoscere i fratelli La Gala, in quanto gli erano stati “vivamente raccomandati” dal suo buon amico Francesco Starrabba, principe di Giardinelli[14], anche lui ammanettato nel marzo. Il principe di Giardinelli dichiarò che i fratelli glieli aveva presentati, come “picciotti d’onore”, un suo “campiere”, un certo Gentile Gentile, dipendente fidatissimo e onesto.
Gentile, interrogato a sua volta, rispose:
“Poco so di questi fratelli. Me li mandò persona di gran rispetto da Palermo. So che dovevano portarsi sul continente per certi affari. Nel ‘60, essi aiutarono il generale Garibaldi a sbrigarsi in molti impicci.”        
Caso classico!
Troviamo i pregiudicati La Gala dalla parte dei patrioti, nel 1860; li ritroviamo, tre anni più tardi, al servizio del Borbone.
Assistiamo al loro arresto, sul piroscafo Aunis, ma non sappiamo chi fosse quella “persona di gran rispetto” che li aveva sguinzagliati da Palermo. O meglio, non ne conosciamo il nome, ma ne possiamo indovinare, facilmente, la qualità.
Un “pezzo da 90” – o, forse, perfino, un “120” – di Mamma Mafia.
Anche allora, come ora, nei momenti critici saltavano i La Gala.
La Mafia, come ogni circuito elettrico ben fatto, ha le sue valvole di sicurezza, per impedire i corti circuiti: i La Gala, che, certamente, una certa sera, a “mezzanotte meno tre” – come si dice sia prescritto dal vecchio codice delle cosche – avevano giurato obbedienza cieca e assoluta al loro superiore “riconosciuto”, vale a dire immediato, diretto. Che l’ordine fosse di proteggere Giuseppe Garibaldi, oppure di sparargli “a lupara”, ossia con pallettoni da lupo, non “era cosa loro”.
“Picciotto, va e fa’.”
Questa è la formula!
Non è ammesso neppure mormorare:
“Perché?”
Basta una parola, per essere “riposati”...
Ammazzati, per dirla con minore riguardo!  
Questo patto di dedizione completa, di sottomissione totale, è la forza numero uno della Mafia, è il suo granitico basamento.
La forza numero due è la suddivisione in cosche: piccoli agglomerati che, di solito, agiscono isolati e hanno l’incarico di portare a termine, dal principio alla fine, tutta una operazione, ma che all’occorrenza possono, provvisoriamente, collaborare.
Il capo-cosca non è un uomo “di cappello”. È ancora uomo “di coppola”. Di berretta.
Per trovare i “cappelli” bisogna andare più in su!
Questo, in Sicilia, anche oggi, quantunque se ne dica.
Quanto alla Mafia americana, che, sotto i cappotti di cammello e le cravatte da 10 dollari, conservava, con incredibile osservanza, i caratteri tradizionali, la cosca diviene un detach (abbreviazione di detachment, distaccamento) comandato da un hard boy, un ragazzo duro, un giovanotto O.K.
“Organizzazione al servizio delle organizzazioni.”,
così aveva definito la Mafia Estes Kefauver, nel 1950.
In America, dopo che fu votata la legge Wilson sul proibizionismo, ingenti grossi capitali, di origine “pulita”, affluirono nel colossale giro delle distillerie clandestine e del cotrabbando. Il big boss dell’alcol “nero”, a New York, fu Francesco Castiglia, detto Frank Costello.


Frank Costello

Il suo omologo, a Chicago, si chiamava Al Capone.
Sotto Costello, distaccati a dirigere le varie “sottoprefetture”, Frank Nitti, Antonino Accardo.
Siamo nel 1930.
Negli ultimi tre anni la gang, appoggiata dal partito democratico per il quale organizza le elezioni, si è rafforzata con elementi freschi, scappati dalla Sicilia per sottrarsi al domicilio coatto, apllicato con larghezza dal prefetto Cesare Primo Mori.


Al Capone

Pesci piccoli – i grossi se ne infischiano del prefetto – ma vivaci, disposti a tutto pur di entrare nelle grazie di Mamma Mafia e di avere in tasca rotoli ben stretti di banconote verdi: le cosiddette “foglie di cavolo”. I nuovi “picciotti”, subito smistati nei vati detach della Onorata Società – ben mimetizzata dietro le frasche politiche della Tammany Hall[15], dell’Unione Siciliana e delle diverse fratellanze meridionali – avevano sentito parlare, migliaia di volte, dei capi in carica al di là dell’Atlantico, come di eroi meravigliosi, potenti, straordinariamente ricchi e felici. Quei picciotti dell’ondata 1927-1930 non ebbero il tempo di ingrassare con i proventi del contrabbando di birra e di whisky. La cessazione del proibizionismo, tre anni dopo la Grande Crisi, spense, con un solo soffio, il fuoco che, per oltre dieci anni, aveva fatto bollire, notte e giorno, le distillatrici clandestine. Il periodo di congiuntura sarebbe stato lungo e difficile per quei ragazzi, se Mamma Mafia non avesse provveduto, tempestivamente, al loro impiego in altri settori ancora più prosperi e fruttuosi: controllo dei sindacati, repressione operaia, protezione dei mercati, prostituzione, gioco, droga.
Caduto il proibizionismo, gli affari, anziché restringersi, si erano allargati, dilatati con straordinaria rapidità. Il più redditizio di tutti restava, a ogni modo, la politica. Una organizzazione intimidatoria capillare come la Onorata Società, con succursali e distaccamenti in ogni Stato, dall’Atlantico al Pacifico, poteva garantire il successo ai candidati che ne acquisissero i servizi. Fu proprio, allora, che i mafiosi dei grattacieli compresero quanto fosse utile la esperienza accumulata, in Sicilia, dalla Mamma.
Quando, negli Stati Uniti, la politica era qualcosa di mezzo tra la Bibbia e il puritanesimo dei pionieri; in Sicilia, uomini come Francesco Crispi sapevano, già, tutto, in fatto di “maniere forti”, applicate alla politica. Se la potenza della Mafia, come organizzazione elettorale, era divenuta strapotenza, nel 1912, con l’avvento del suffragio universale, già molto prima, i “pezzi da 90” avevano fatto sentire il loro peso anche in questo campo. Basti ricordare quell’onorevole Raffaele Palizzolo, che, nel 1896, costrinse il commissario civile Giovanni Codronchi [https://books.google.it/books?id=3TXjxQI8sPoC&pg=PT117&lpg=PT117&dq=palizzolo+codronchi&source=bl&ots=0mb1_H2xga&sig=UpBTBjzIukgGGemzdBTUzlxftP4&hl=it&sa=X&ei=raGmVPrcKof1UvO7gdAP&ved=0CCcQ6AEwATgK#v=onepage&q=palizzolo%20codronchi&f=false, http://www.liberliber.it/mediateca/libri/v/valera/l_assassinio_notarbartolo/pdf/l_assa_p.pdf] a scarcerare un certo Matisi, imprigionato dopo anni di latitanza, con l’accusa di numerosi omicidi, il quale, stando in carcere, si era presentato candidato al consiglio comunale. Liberato con procedura “straordinaria”, il mafioso Matisi divenne vice-sindaco di Bagheria. Lo stesso onorevole Palizzolo, commendatore della Corona d’Italia, fu arrestato, l’8 dicembre 1899, come mandante degli assassini del marchese Emanuele Notarbartolo di San Giovanni, suo avversario politico.
Nel marzo del 1951, quando la Commissione Senatoriale Kefauver sollevò il coperchio di New York, cento milioni di americani spalancarono la bocca di fronte all’enorme marcio che traboccò dal pentolone. Le responsabilità dell’ex-sindaco William O’Dwyer e del suo fido segretario James Moran, in materia di abusi amministrativi a favore di mafiosi, quali Costello, Adonis e Anastasia, risultavano evidenti. Meglio richiudere il coperchio, per evitare rivelazioni che, forse, avrebbero sconvolto la Nazione più della Grande Crisi del 1929.
Meglio non conoscerla tutta, la influenza di Mamma Mafia, nella vita pubblica americana!
Ma torniamo in Sicilia, terra degli avi!
Le stragi susseguitesi attorno al mercato ortofrutticolo di Palermo, attorno al porto mercantile della medesima città, a Corleone e un po’ ovunque, nella zona occidentale dell’isola, non si spiegano, completamente, con la questione della concorrenza commerciale, dell’irrigazione negli agrumeti, degli abigeati. Né basta il meccanismo delle vendette e delle controvendette, a spiegare come mai gli ammazzamenti, nelle province mafiose, si intensifichino pressocché nei periodi che precedono o seguono certi “riordinamenti” politici o certi “cambiamenti” di indirizzo elettorale.
Morto don Calogero Vizzini di Villalba, indicato per molti anni, con insistenza un po’ sospetta, come il Gran Capo della Onorata Società, era facile incontrare in un albergo palermitano di seconda categoria, laconico e serio, il suo successore: Giuseppe Genco Russo. Che fosse lui, all’epoca, il numero uno della Mafia lo sapevano tutti in Sicilia, anche i bambini.
Dobbiamo, dunque, credere che una associazione tanto gelosa dei propri segreti, al punto da eliminare senza pietà chi minacciasse di aprire bocca, mettesse in vitrina, così facilmente, il suo capo supremo?
Può anche darsi, ma il dubbio è legittimo!
Assai più credibile è che la grande famiglia dei picciotti onorati, in Sicilia e in America, abbia un Papà “vero”, il cui nome non bisogna pronunciare perché la Mamma non vuole…  


Daniela Zini
Copyright © 2 gennaio 2015 ADZ


[1] President John F. Kennedy
Waldorf-Astoria Hotel, New York City
April 27, 1961
Mr. Chairman, ladies and gentlemen:
I appreciate very much your generous invitation to be here tonight.
You bear heavy responsibilities these days and an article I read some time ago reminded me of how particularly heavily the burdens of present day events bear upon your profession.
You may remember that in 1851 the New York Herald Tribune under the sponsorship and publishing of Horace Greeley, employed as its London correspondent an obscure journalist by the name of Karl Marx.
We are told that foreign correspondent Marx, stone broke, and with a family ill and undernourished, constantly appealed to Greeley and managing editor Charles Dana for an increase in his munificent salary of $5 per instalment, a salary which he and Engels ungratefully labelled as the “lousiest petty bourgeois cheating.”
But when all his financial appeals were refused, Marx looked around for other means of livelihood and fame, eventually terminating his relationship with the Tribune and devoting his talents full time to the cause that would bequeath the world the seeds of Leninism, Stalinism, revolution and the cold war.
If only this capitalistic New York newspaper had treated him more kindly; if only Marx had remained a foreign correspondent, history might have been different. And I hope all publishers will bear this lesson in mind the next time they receive a poverty-stricken appeal for a small increase in the expense account from an obscure newspaper man.
I have selected as the title of my remarks tonight “The President and the Press.” Some may suggest that this would be more naturally worded “The President Versus the Press.” But those are not my sentiments tonight.
It is true, however, that when a well-known diplomat from another country demanded recently that our State Department repudiate certain newspaper attacks on his colleague it was unnecessary for us to reply that this Administration was not responsible for the press, for the press had already made it clear that it was not responsible for this Administration.
Nevertheless, my purpose here tonight is not to deliver the usual assault on the so-called one party press. On the contrary, in recent months I have rarely heard any complaints about political bias in the press except from a few Republicans. Nor is it my purpose tonight to discuss or defend the televising of Presidential press conferences. I think it is highly beneficial to have some 20,000,000 Americans regularly sit in on these conferences to observe, if I may say so, the incisive, the intelligent and the courteous qualities displayed by your Washington correspondents.
Nor, finally, are these remarks intended to examine the proper degree of privacy which the press should allow to any President and his family.
If in the last few months your White House reporters and photographers have been attending church services with regularity, that has surely done them no harm.
On the other hand, I realize that your staff and wire service photographers may be complaining that they do not enjoy the same green privileges at the local golf courses that they once did.
It is true that my predecessor did not object as I do to pictures of one’s golfing skill in action. But neither on the other hand did he ever bean a Secret Service man.
My topic tonight is a more sober one of concern to publishers as well as editors.
I want to talk about our common responsibilities in the face of a common danger. The events of recent weeks may have helped to illuminate that challenge for some; but the dimensions of its threat have loomed large on the horizon for many years. Whatever our hopes may be for the future - for reducing this threat or living with it - there is no escaping either the gravity or the totality of its challenge to our survival and to our security - a challenge that confronts us in unaccustomed ways in every sphere of human activity.
This deadly challenge imposes upon our society two requirements of direct concern both to the press and to the President - two requirements that may seem almost contradictory in tone, but which must be reconciled and fulfilled if we are to meet this national peril. I refer, first, to the need for a far greater public information; and, second, to the need for far greater official secrecy.

I
The very word “secrecy” is repugnant in a free and open society; and we are as a people inherently and historically opposed to secret societies, to secret oaths and to secret proceedings. We decided long ago that the dangers of excessive and unwarranted concealment of pertinent facts far outweighed the dangers which are cited to justify it. Even today, there is little value in opposing the threat of a closed society by imitating its arbitrary restrictions. Even today, there is little value in insuring the survival of our nation if our traditions do not survive with it. And there is very grave danger that an announced need for increased security will be seized upon by those anxious to expand its meaning to the very limits of official censorship and concealment. That I do not intend to permit to the extent that it is in my control. And no official of my Administration, whether his rank is high or low, civilian or military, should interpret my words here tonight as an excuse to censor the news, to stifle dissent, to cover up our mistakes or to withhold from the press and the public the facts they deserve to know.
But I do ask every publisher, every editor, and every newsman in the nation to reexamine his own standards, and to recognize the nature of our country’s peril. In time of war, the government and the press have customarily joined in an effort based largely on self-discipline, to prevent unauthorized disclosures to the enemy. In time of “clear and present danger,” the courts have held that even the privileged rights of the First Amendment must yield to the public’s need for national security.
Today no war has been declared - and however fierce the struggle may be, it may never be declared in the traditional fashion. Our way of life is under attack. Those who make themselves our enemy are advancing around the globe. The survival of our friends is in danger. And yet no war has been declared, no borders have been crossed by marching troops, no missiles have been fired.
If the press is awaiting a declaration of war before it imposes the self-discipline of combat conditions, then I can only say that no war ever posed a greater threat to our security. If you are awaiting a finding of “clear and present danger,” then I can only say that the danger has never been more clear and its presence has never been more imminent.
It requires a change in outlook, a change in tactics, a change in missions - by the government, by the people, by every businessman or labor leader, and by every newspaper. For we are opposed around the world by a monolithic and ruthless conspiracy that relies primarily on covert means for expanding its sphere of influence - on infiltration instead of invasion, on subversion instead of elections, on intimidation instead of free choice, on guerrillas by night instead of armies by day. It is a system which has conscripted vast human and material resources into the building of a tightly knit, highly efficient machine that combines military, diplomatic, intelligence, economic, scientific and political operations.
Its preparations are concealed, not published. Its mistakes are buried, not headlined. Its dissenters are silenced, not praised. No expenditure is questioned, no rumor is printed, no secret is revealed. It conducts the Cold War, in short, with a war-time discipline no democracy would ever hope or wish to match.
Nevertheless, every democracy recognizes the necessary restraints of national security - and the question remains whether those restraints need to be more strictly observed if we are to oppose this kind of attack as well as outright invasion.
For the facts of the matter are that this nation’s foes have openly boasted of acquiring through our newspapers information they would otherwise hire agents to acquire through theft, bribery or espionage; that details of this nation’s covert preparations to counter the enemy’s covert operations have been available to every newspaper reader, friend and foe alike; that the size, the strength, the location and the nature of our forces and weapons, and our plans and strategy for their use, have all been pinpointed in the press and other news media to a degree sufficient to satisfy any foreign power; and that, in at least in one case, the publication of details concerning a secret mechanism whereby satellites were followed required its alteration at the expense of considerable time and money.
The newspapers which printed these stories were loyal, patriotic, responsible and well-meaning. Had we been engaged in open warfare, they undoubtedly would not have published such items. But in the absence of open warfare, they recognized only the tests of journalism and not the tests of national security. And my question tonight is whether additional tests should not now be adopted.
The question is for you alone to answer. No public official should answer it for you. No governmental plan should impose its restraints against your will. But I would be failing in my duty to the nation, in considering all of the responsibilities that we now bear and all of the means at hand to meet those responsibilities, if I did not commend this problem to your attention, and urge its thoughtful consideration.
On many earlier occasions, I have said - and your newspapers have constantly said - that these are times that appeal to every citizen’s sense of sacrifice and self-discipline. They call out to every citizen to weigh his rights and comforts against his obligations to the common good. I cannot now believe that those citizens who serve in the newspaper business consider themselves exempt from that appeal.
I have no intention of establishing a new Office of War Information to govern the flow of news. I am not suggesting any new forms of censorship or any new types of security classifications. I have no easy answer to the dilemma that I have posed, and would not seek to impose it if I had one. But I am asking the members of the newspaper profession and the industry in this country to re-examine their own responsibilities, to consider the degree and the nature of the present danger, and to heed the duty of self-restraint which that danger imposes upon us all.
Every newspaper now asks itself, with respect to every story: “Is it news?” All I suggest is that you add the question: “Is it in the interest of the national security?” And I hope that every group in America - unions and businessmen and public officials at every level - will ask the same question of their endeavors, and subject their actions to the same exacting tests.
And should the press of America consider and recommend the voluntary assumption of specific new steps or machinery, I can assure you that we will cooperate whole-heartedly with those recommendations.
Perhaps there will be no recommendations. Perhaps there is no answer to the dilemma faced by a free and open society in a cold and secret war. In times of peace, any discussion of this subject, and any action that results, are both painful and without precedent. But this is a time of peace and peril which knows no precedent in history.

II
It is the unprecedented nature of this challenge that also gives rise to your second obligation - an obligation which I share. And that is our obligation to inform and alert the American people - to make certain that they possess all the facts that they need, and understand them as well - the perils, the prospects, the purposes of our program and the choices that we face.
No President should fear public scrutiny of his program. For from that scrutiny comes understanding; and from that understanding comes support or opposition. And both are necessary. I am not asking your newspapers to support the Administration, but I am asking your help in the tremendous task of informing and alerting the American people. For I have complete confidence in the response and dedication of our citizens whenever they are fully informed.
I not only could not stifle controversy among your readers - I welcome it. This Administration intends to be candid about its errors; for as a wise man once said: “An error does not become a mistake until you refuse to correct it.” We intend to accept full responsibility for our errors; and we expect you to point them out when we miss them.
Without debate, without criticism, no Administration and no country can succeed - and no republic can survive. That is why the Athenian lawmaker Solon decreed it a crime for any citizen to shrink from controversy. And that is why our press was protected by the First Amendment - the only business in America specifically protected by the Constitution - not primarily to amuse and entertain, not to emphasize the trivial and the sentimental, not to simply “give the public what it wants” - but to inform, to arouse, to reflect, to state our dangers and our opportunities, to indicate our crises and our choices, to lead, mold, educate and sometimes even anger public opinion.
This means greater coverage and analysis of international news - for it is no longer far away and foreign but close at hand and local. It means greater attention to improved understanding of the news as well as improved transmission. And it means, finally, that government at all levels, must meet its obligation to provide you with the fullest possible information outside the narrowest limits of national security - and we intend to do it.

III
It was early in the Seventeenth Century that Francis Bacon remarked on three recent inventions already transforming the world: the compass, gunpowder and the printing press. Now the links between the nations first forged by the compass have made us all citizens of the world, the hopes and threats of one becoming the hopes and threats of us all. In that one world’s efforts to live together, the evolution of gunpowder to its ultimate limit has warned mankind of the terrible consequences of failure.
And so it is to the printing press - to the recorder of man’s deeds, the keeper of his conscience, the courier of his news - that we look for strength and assistance, confident that with your help man will be what he was born to be: free and independent.
http://www.youtube.com/watch?v=AKhUbOxM2ik

[2] “Maffia n. f. Associazione di malfattori costituitasi in Sicilia, la quale si è diffusa in tutta Italia e, perfino, negli Stati Uniti. Ha dietro le spalle il clero, i monarchici rimasti fedeli alla causa borbone, perfino dei funzionari e dei poliziotti. Pratica, soprattutto, estorsioni, sequestrando ricchi privati che rilascia solo dietro un ingente riscatto.”

[4] Dopo oltre cento anni, si sarebbe scoperto il killer, che freddò Joe Petrosino, in Piazza Marina, a Palermo. Una cimice ha registrato una frase di Domenico Palazzotto, pronipote di Paolo – arrestato, il 23 giugno scorso, in un maxiblitz –, che si vantava delle tradizioni centenarie di appartenenza alla mafia della sua famiglia:
“Lo zio di mio padre si chiamava Paolo Palazzotto, ha fatto l’omicidio del primo poliziotto ucciso a Palermo. Lo ha ammazzato lui Joe Petrosino, per conto di Cascio Ferro.”

[5] Salvatore Lucania (Lercara Friddi, 24 novembre 1897 - Napoli, 26 gennaio 1962), assunse negli Stati Uniti il nome di Charles Luciano. Il soprannome Lucky gli venne attribuito in seguito a un fatto accaduto il 16 ottobre 1929: alcuni uomini non identificati lo accoltellarono più volte e lo lasciarono in una spiaggia di Staten Island con la gola squarciata, credendolo morto. Ma Luciano si salvò e, da allora, tutti lo chiamarono Lucky, il fortunato.
Contattato da un produttore cinematografico, interessato a girare un film sulla sua vita, si diedero appuntamento, il 26 gennaio 1962, all’aeroporto di Capodichino, ove Lucky ebbe un infarto e morì, a 64 anni.

[6] Frank Costello, pseudonimo di Francesco Castiglia [Lauropoli, 26 gennaio 1891 - New York, 18 febbraio 1973], fu soprannominato “primo ministro della malavita” dalla stampa statunitense.
Il 2 maggio 1957, subì un agguato da parte di Vincent Gigante, killer di Genovese, che gli sparò alla testa, mentre camminava verso l’ascensore nell’atrio del suo appartamento di Manhattan. Colpito di striscio, Costello riuscì a salvarsi e decise di cedere il comando della sua Famiglia a Genovese, ritirandosi a vita privata.
Frank Costello morì, il 18 febbraio 1973, per un attacco cardiaco, all’età di 82 anni.

[7] Giuseppe Antonio Doto (Montemarano, 22 novembre 1902 – 26 novembre 1971), giunto negli Stati Uniti, nel 1915, iniziò a fare il borseggiatore e, negli anni 1920, cambiò il nome in Joe Adonis, iniziando a lavorare nella banda del gangster Frankie Yale, che operava a Brooklyn. In seguito si legò a Lucky Luciano, di cui divenne amico e con il quale iniziò a operare nel campo della prostituzione e del gioco d’azzardo a Manhattan.
Morì di un attacco cardiaco il 26 novembre 1971, durante un interrogatorio nella questura di Milano.

[8] Umberto Anastasio nacque a Tropea, il 26 settembre 1902. Nel 1919, si trasferì clandestinamente negli Stati Uniti insieme al fratello Antonio, venendo assunto come scaricatore di porto a Brooklyn. Fu qui che Anastasio iniziò a occuparsi di attività illecite insieme al fratello, venendo arrestato nel 1920 per l’omicidio di un collega.
Nel 1957, Anastasia scelse il suo capodecina Carlo Gambino come vicecapo dopo aver fatto assassinare il suo predecessore Frank Scalise. Gambino, tuttavia, si legò troppo a Vito Genovese, che mirava a prendere il comando della Famiglia di Frank Costello. Lo scopo dei due era quello di eliminare Anastasia e Costello per rilevarne le rispettive Famiglie.
Il 2 maggio 1957, Costello venne ferito di striscio da un killer di Genovese e decise di cedergli il comando della Famiglia.
Infine, Genovese e Gambino ordinarono anche l’omicidio di Anastasia.
La mattina del 25 ottobre 1957, Anastasia andò dal suo barbiere al Park Sheraton Hotel, accompagnato dal suo guardaspalle, che si dileguò subito perché d’accordo con i killers. Appena si sedette sulla poltrona, entrarono i due killers che lo uccisero a colpi di pistola. Dopo l’uccisione di Anastasia, il comando della sua Famiglia passò a Carlo Gambino. 

[9] Antonino Accardo, soprannominato Joe Batters, [Chicago, 28 aprile 1906 - Chicago, 22 maggio 1992] nasce nel quartiere siciliano, Little Sicily, del West Side a Chicago. Presto entra a far parte di una banda di adolescenti del quartiere, chiamata circus cafe gang, una delle tante bande di strada dei quartieri poveri di Chicago. Il suo primo arresto avvenne all’età di 16 anni, nel 1922, per furto di auto e guida senza patente.
Nel 1926, si lega a Jack M’gurn, un coetaneo, che lo presenta ad Al Capone. M’gurn è il migliore killer di Capone e Accardo diviene presto uno degli uomini di fiducia di Capone nel contrabbando di alcol fungendo da suo guardaspalle.
Nonostante l’arresto record risalente al 1922, quando aveva appena 16 anni, Accardo passò in carcere una sola notte in tutta la sua vita. Il 22 maggio 1992, muore all’ età di 86 anni.

[10] Gaetano Mosca, nel 1891, divenne segretario particolare di Antonio Starrabba di Rudinì, allora presidente del consiglio. Curò la rubrica Finanza ed economia del quotidiano L’Opinione di Roma e, nel 1900, tenne una conferenza sulla mafia alla Cultura di Torino e a Milano (pubblicata con il titolo Che cos’è la mafia, sul Giornale degli economisti, 1900, vol. 20, pp. 236-262).

[11] Al generale Renato Candida si è ispirato Leonardo Sciascia nel descrivere la figura del capitano Bellodi, il protagonista de Il giorno della civetta. Fu autore, nel 1956, del saggio Questa mafia e uno dei primi a riconoscere la presenza reale della organizzazione mafiosa nel territorio dell’agrigentino.

[12] Maria Sofia di Wittelsbach nacque a Possenhofen, in Baviera, il 4 ottobre 1841 da Massimiliano, duca in Baviera, e da Ludovica di Baviera. Era alta, con occhi neri, folti capelli castani e un bel viso. Come la sorella Elisabetta (Sissi), futura imperatrice d’Austria, era solita uscire da sola, cavalcare, tirare di scherma; praticava il nuoto, la danza e il tiro con la carabina. Dal padre aveva ereditato l’amore per gli animali: in particolare cavalli, cani e pappagalli. Le trattative per il matrimonio con Francesco di Borbone, erede al trono napoletano, furono condotte in segreto dalla duchessa Ludovica e dalla regina delle Due Sicilie, Maria Teresa d’Asburgo Lorena, interessata a consolidare i legami con l’Impero asburgico. Il matrimonio fu celebrato per procura, l’8 gennaio 1859, nel palazzo reale di Monaco.
Morì a Monaco il 18 gennaio 1925. Le sue spoglie, insieme con quelle del marito e della figlia, nel 1938, furono traslate, a Roma, e, nel 1984, a Napoli, nella Basilica di Santa Chiara.


[13] Marco Minghetti [Bologna, 8 novembre 1818 – Roma, 10 dicembre 1886] succedette, tra il 24 marzo 1863 e il 28 settembre 1864, a Luigi Carlo Farini nella carica di presidente del consiglio del Regno d'Italia. Fu, nuovamente, presidente del consiglio, tra il 10 luglio 1873 e il 25 marzo 1876. Durante questa legislatura, si trovò in disaccordo con la Destra, alla quale nonostante tutto apparteneva. Motivo del contendere era la rigorosa politica fiscale che perseguì e che portò al pareggio di bilancio, annunciato il 16 marzo 1876.

[14] Francesco Starrabba, principe di Giardinelli, imparentato con il principe di Sant’Elia, era stato membro del Comitato rivoluzionario tra la fine del 1859 e i primi del 1860; arrestato insieme ad altri nobili, dopo il fallito moto del 4 aprile 1860 [Rivolta della Gancia] fu liberato con l’entrata dei Mille, a Palermo, e prese parte alla spedizione di Giuseppe Garibaldi, conclusasi sull’Aspromonte.
Il primo nome che registriamo della famiglia Starrabba è quello del capostipite, intorno al 1300, il magnifico Starab, i cui figli Anselmo e Ludovico sono maestri di camera della regina Eleonora d’Angiò, nel 1310. Tra i personaggi illustri di questa famiglia, Antonio Starrabba, marchese Di Rudinì, (1839-1908), più volte ministro e presidente del consiglio del ministri, nonché sindaco di Palermo, figlio di Francesco Paolo marchese di Rudinì, conte di Pachino, che, nel 1848, a Palermo, aveva presieduto il comitato per la raccolta fondi in preparazione della guerra contro i Borboni. Antonio Starrabba, marchese Di Rudinì, fu uno dei massimi esponenti della Destra storica, in italia, e si alternò alla guida del governo italiano a Francesco Crispi e Giovanni Giolitti.

[15] La Tammany Hall era una organizzazione collegata al Partito Democratico degli Stati Uniti, con sede a New York, e operante dal 1789 alla fine degli anni 1960, che, per decenni, controllò le politiche della città, venendo, spesso, accusata di corruzione.

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