“He who controls the past controls the future.
He who controls the present controls the past.”
George Orwell, 1984
SOCIETA’ SEGRETE
“In politics, nothing happens by accident. If it
happens, you can bet it was planned that way.”
Franklin D. Roosevelt
A Mes Amis
Daniela Zini
Passer ses jours à désirer
Sans trop savoir ce qu'on désire
Au même instant rire et pleurer,
Sans raison de pleurer et sans raison de rire.
Voilà ce qu'on se plaint de sentir quand on aime,
Et de ne plus sentir quand on cesse d'aimer.
Vous, Mes Amis, m’avez perdu ma solitude.
Vous, Mes Amis, m’avez arraché le drap.
Vous, Mes Amis, m’avez mis en fleurs mes cicatrices.
agli
Amici vecchi e nuovi, reali e virtuali, sparsi in tutto il mondo
Innumerevoli
sono le persone che vorrei ringraziare qui, giacché sono stati tanti coloro che
mi hanno offerto con toccante generosità qualcosa di utile, a volte di prezioso.
Mi
riferisco agli Amici vecchi e nuovi, reali e virtuali, sparsi in tutto il
mondo, con cui ho scambiato, nel corso degli anni, una infinità di lettere e di
mails, spesso, del massimo interesse
per me.
Non
posso, con grande rammarico, menzionarli tutti, a rischio di dimenticarne
qualcuno; tuttavia, posso garantire che tutti sono e, sempre, saranno nel mio
cuore.
Come
me, ritengono questi “incontri” una occasione per conoscersi e per intrecciare
rapporti umani con Esseri distanti, uniti da un interesse comune.
Tutto
questo a dimostrazione che, su questo Pianeta, vi è, ancora, voglia di fare
cultura con responsabilità sociale.
Oggi,
sento il piacere di avere molti Amici sparsi per il Mondo... grazie a Facebook
anche per questo.
Buona
Pasqua a Voi e alle Vostre Famiglie!
D
La mia vita
è una bella Fiaba, tanto ricca e felice!
Se bambina,
quando mi apprestavo ad andare per il mondo, avessi incontrato una potente Fata che mi
avesse detto:
“Scegli la tua vita e il tuo destino e io ti
proteggerò e ti guiderò, seguendo il tuo sviluppo spirituale, qualunque cosa
accada in questo mondo.”,
il mio
destino non avrebbe potuto essere più felice, la mia vita più equilibrata.
Sovente,
molte Donne, Amiche e non, mi chiedono:
"E' difficile essere Donna e sola?"
In un
passato, neppure tanto remoto, una Donna non sposata e senza figli non aveva status, era considerata un essere monco,
incompleto, irrealizzato. Oggi, tutti gli psicologi, i guru, i filosofi e anche
i giornali femminili ripetono, a oltranza, che per trovare la persona giusta e
sedurre un Uomo ogni Donna dovrebbe apprendere a stare bene da sola e a vivere
da sola, felicemente.
È un concetto che viene talmente ripetuto che anche la Donna più
sprovveduta conosce... e qualcuno trova il tempo di farvi, perfino, dell'ironia...
o considera con pesante scetticismo.
Io so, perfettamente, che quando si dice a una Donna
di vivere la propria vita in serenità da sola e abituarsi a vivere da sola, in
autonomia e con indipendenza, si rischia di farla adirare, di farla soffrire o
di farla preoccupare.
Avete, mai, fatto caso che gli Uomini si godono, con
grande piacere, la propria solitudine, ne sono orgogliosi e, molto spesso, la
difendono con le unghie e con i denti?
Avete, mai, fatto caso che gli Uomini amano stare da
soli, perché si sentono liberi di vivere la propria vita come preferiscono e
sperimentare, in totale autonomia, le proprie avventure sentimentali, le
proprie passioni, le proprie sfide professionali?
Non vi dà da pensare tutto ciò?
E allora perché io non dovrei poter vivere con
piacere e, anche, con entusiasmo il fatto di essere sola?
Vi è un forte pregiudizio nella nostra società: un
Uomo solo, autonomo e indipendente è un “figo”; mentre una donna sola, autonoma
e indipendente deve avere, necessariamente, qualche "magagna"
sotto...
Ebbene la mia "magagna" è scrivere...
Sono, semplicemente, uno scrittore, cui accade di
essere Donna...
Desiderare legami forti e di valore con Altri è
naturale... e, allo stesso modo, desiderare l’indipendenza e l’autonomia, vale a
dire la capacità di vivere da sola, di cavarsela da sola e di essere felice da
sola...
È stata mia Nonna a insegnarmi il coraggio.
Quando le sue Amiche le chiedevano se fossi
fidanzata, lei rispondeva:
"No,
mia nipote è diversa. Non tutte le scelte vanno bene per tutti."
Sentivo, già allora, la mia dipendenza dalla
generosità degli Altri. Mi mancavano le cose più necessarie e, in certi
momenti, mi assalivano pensieri cupi sul mio futuro; mentre, in altri,
riacquistavo tutta la leggerezza della giovinezza.
Ancora oggi, mi sento così... diversa.
Certo, conservo l'ideale dell'incontro della mia
vita, ma proprio per questo non lo voglio a tutti i costi...
Vi sono
storie da ascoltare e altre da raccontare.
Quella che
segue è una storia che avrei voluto ascoltare.
Ma non
sempre le cose della vita vanno come avevamo pensato, immaginato, sperato.
E, così,
questa storia che avrei voluto ascoltare, la racconto, consapevole che, spesso,
alcune storie – come questa qui affrontata – sfuggono al controllo della razionalità
e si arroccano all’interno del mito, pur avendo, ognuna, una propria dimensione
storica e una tradizione culturale molto precisa.
Parlare dei
Cavalieri del Tempio è, sempre, rischioso, in quanto vi è il pericolo di essere
annoverati tra i cacciatori di miti, disposti ad accettare le adulazioni
dell’esoterismo e della leggenda, perdendo, così di vista, i razionali
parametri della indagine storica.
La storia
dei Templari ha attratto non pochi, affascinati da un sogno di occulti sapere e
potere, posseduti da pochi privilegiati, forti di una acquisita conoscenza segreta
dei principi delle cose e, proditoriamente, trucidati da autorità reazionarie
che avevano compreso solo a metà il pericolo in cui li ponevano. Ma il mito dei
Templari offre alla nostra considerazione anche aspetti meno intellettuali e
pindarici. È, infatti, possibile guardare alla fine dell’Ordine come a una
storia gotica di orrore, dotata di tutti gli elementi del romanzo nero:
sadismo, perversioni sessuali del clero, scoperta di un tesoro, magia. Come
gran parte dell’occultismo più intellettuale, il mito dei Templari pare
sconfinare, agli estremi, nel folklore.
Il mito
templare può, in parte, rientrare nelle invenzioni letterarie di gusto gotico;
in parte, considerarsi un frutto della esperienza religiosa teosofica.
È sorto
dallo stesso ambiente settecentesco, nel quale si è prodotto il racconto gotico
e contiene, anche, una buona dose di quel sensualismo magico, così caro ai
narratori di storie gotiche.
Come tutti i
racconti gotici, il mito templare affonda le radici nel romanzo avventuroso,
che si richiama, a sua volta, ai racconti cavallereschi del Medioevo.
Anche se i
romanzi storici, che sono stati, specificamente, scritti intorno ai Templari,
sono scadenti, più importante di qualsiasi opera del genere è la vaga e
crescente convinzione del lettore comune dei primi del XIX secolo che i
Templari fossero un argomento sinistro, di fastidioso interesse, in qualche
modo, collegato alle origini della cavalleria medioevale.
Così, quando
Joseph Hammer, in The Mystery of Baphomet
Revealed, intreccia il mito templare con la leggenda del Graal, pone,
inconsapevolmente, fine alla convenzione che aveva, fino ad allora, riservato
alla privata contemplazione di pochi la leggenda templare. L’idea base che
Hammer convoglia, vale a dire che i Cavalieri del Graal e i Cavalieri Templari fossero
tutti, segretamente, manichei, si sposava, perfettamente, con molte altre idee
correnti del suo tempo. Così, il Templarismo veniva portato alla attenzione
degli studiosi dei romanzi di avventura medioevali oltre a quella dei primi
teorici di antropologia del Medioevo cristiano. Ma entrava anche a fare parte
dei ferri del mestiere dei teorici della cospirazione politica, ormai, diffusi
tra i propagandisti politici della Sinistra e della Destra.
In alcuni
casi, quali quello del cospiratore italiano Filippo Buonarroti, i radicali
giunsero ad accettare i mitici gruppi segreti illuministi come modelli, che
influenzarono tanto il loro vocabolario politico quanto il modo in cui
organizzarono i propri gruppi cospiratori.
Nel quarto e
nel quinto decennio del XIX secolo, i Templari simboleggiavano, ormai, agli
occhi di molta gente, che si riteneva informata e illuminata, il concetto di
persecuzione da parte di chi possedeva la straordinaria conoscenza nascosta. La
presunta conoscenza custodita dai Templari poteva apparire efficace tanto in
senso buono che cattivo, in rapporto al modo in cui si interpretava la
letteratura della cospirazione.
Il
disprezzo, manifestato da Karl Marx, per chiunque rimpiangesse l’Ordine feudale
medioevale ci ha impedito di cogliere la nostalgia che molti radicali e
socialisti del primo Ottocento hanno nutrito per il Medioevo.
Non sono
stati soli i conservatori a sognare, ardentemente, il mondo gotico. Molti
radicali hanno guardato indietro, pieni di desiderio, alla organicità e alla
presunta armonia sociale del mondo degli artigiani medioevali: un sentimento
che aveva preceduto di molto le News from
Nowhere di William Morris.
Ma, dal
tardo secolo XIX in poi, il Templarismo recupera il proprio posto
nell’immaginario della Destra.
Il
Templarismo non è morto!
Dà agli
iniziati la sensazione di stare seguendo regole e miti, che gli ispiratori di altre
regole e di altri miti non possono conoscere né comprendere e che questo è un
gioco che loro possono giocare, ma che è vietato ad Altri.
Chi non
ricorda il fascino di quei giochi di infanzia ai quali non si permetteva di
prendere parte ai bambini meno favoriti?
Uno dei
commenti fatti dai primi critici della Massoneria è che i massoni fossero dei
bambini che volessero faire la chapelle,
che ha il significato di “giocare alla Chiesa”, proprio come i bambini “giocano
al dottore”.
Molta
letteratura templarista, scritta per il mercato popolare, ha in sé questo senso
di gioco: favole di tesori sepolti in castelli normanni e colline pirenaiche,
astrologiche mappe, capaci di condurci ai segreti luoghi del Santo Graal, nel
profondo della Foresta d’Oriente, sono altrettanti ritorni al mondo dei
racconti fantastici di Charles Nodier. E Charles Nodier aveva, proprio,
esordito come massone radicale e mistico, esperto in riti massonici.
Per i
moderni, il concetto di Crociata è combattere in difesa del diritto.
La croce
colore rosso sangue sul petto di un Cavaliere Templare ne simboleggia la
prontezza al martirio; il bianco mantello, su cui la croce è tracciata, ne
esprime, invece, l’innocenza.
Meno
conosciute sono le origini di questo semplice concetto della Crociata.
Nel Medioevo,
i soldati cristiani “presero la croce”, prima di recarsi in pellegrinaggio
armato in Palestina.
“Prendere la
croce” era un atto legale; la parola “Crociata”, da croce, derivò da
quell’atto.
Lo
chiamarono viaggio, passaggio, verso la Terrasanta, e “prendere la croce” era,
all’inizio, la promessa di recarsi in pellegrinaggio nei luoghi santi di Gesù e
della storia ebraica che questi portò a compimento.
Ma, nel
tardo Medioevo, l’idea di Crociata andò sempre più distinguendosi da quella di
pellegrinaggio in Terrasanta.
La Crociata
era monopolio di capi politici e religiosi, al punto da arrivare a includere
anche tutta una serie di azioni militari, che, in molti casi, non avevano più
nulla a che vedere con la Terrasanta e in cui gli uomini si impegnarono con
l’approvazione ufficiale della Chiesa.
Quando, nel
1291, l’ultimo frammento di Stato crociato in Siria cadde in mano musulmana, il
distacco tra pellegrinaggio e Crociata divenne definitivo.
Un Crociato
non era più tenuto a recarsi in Terrasanta: poteva, come un Cavaliere di Geoffrey
Chaucer, combattere gli infedeli in Egitto e in Nordafrica, in Lituania e in
Spagna.
Un crociato
poteva, anche, combattere contro cristiani dissidenti, quali i catari di
Francia o gli hussiti di Boemia; o, perfino, opporsi ai cattolici ortodossi,
che erano nemici politici del Papa.
Così, il
passaggio o pellegrinaggio armato divenne qualcosa di obsoleto, e ciò che è
sopravvissuto dell’idea di Crociata è il concetto di lotta ai miscredenti,
nemici della verità e del diritto.
La guerra religiosa ha preceduto le Crociate
ed è sopravvissuta alle Crociate.
“Paien unt tort e chrestiens unt dreit”,
recitava La Chanson de Roland, prima ancora che
la Prima Crociata partisse alla volta della Siria.
Mezzo
millennio più tardi, il poeta inglese Edmund Spencer si servì della stessa
frase de La Chanson de Roland per
descrivere, in The Faerie Queene, il combattimento tra il Saraceno e il Cavaliere
Rossocrociato:
“L’uno
combatte per il male, l’altro per il diritto.”
Le Crociate sono
nate in quel recesso della mente umana, in cui i confini tra il reale e il
metaforico, tra il concetto e l’azione, sono sfuggevoli e incerti.
Costituiscono
una prova dell’idealismo umano, ma anche della sua crudeltà e follia: ci
ricordano, come altri episodi nella Storia, che le metafore religiose possono
trasformarsi in realtà politica mediante spargimento di sangue e terrore.
La eredità,
che le Crociate hanno lasciato agli occidentali, è quella di una tradizione
che, se, da un lato, può accenderli di idealistico orgoglio; dall’altro, può,
anche, far provare un certo senso di colpa e di vergogna.
È ben noto
che la presa di Gerusalemme da parte dei Crociati, nel 1099, provocò un
terribile massacro dei suoi abitanti, durante il quale i Crociati,
letteralmente, sguazzarono nel sangue.
Ed è su un
singolo, triste episodio della storia delle Crociate che il mito templare si
impernia: la storia del processo, della persecuzione e della caduta dei
Cavalieri del Tempio.
In questo reportage ho cercato di dimostrare come
un atto di ingiustizia politica medioevale sia divenuto una fantasia moderna.
E, poiché gli
elementi magici, nelle originarie accuse contro i Templari, hanno fornito il
materiale, da cui è nato il mito del Templarismo magico, si può affermare che è
stata la caccia alle streghe medioevale a fungere da diretta antenata del
moderno occultismo.
Ma ciò che,
forse, maggiormente colpisce nella storia dei Templari, come pure nella storia
della stregoneria occidentale in generale, è quanto i testi letterari possano
influenzare le credenze.
Dall’Arcivescovo
di Tiro del XII secolo ai filosofi ermetici del XVI secolo, via via fino ai
nostri giorni, i Templari sono stati messi in falsa luce con la diffusione di
testi errati o inventati.
È stato con
tali mezzi che si è potuto trasformarli, dagli ignoranti, devoti servitori di
un ideale tirannico, negli illuminati Maghi-Eroi della Libertà e della Conoscenza.
Può essere
un miglioramento, ma i Cavalieri Templari non lo avrebbero, certo, né compreso
né approvato.
Daniela Zini
Crediamo, veramente, di conoscere tutto ciò che
accade sul nostro pianeta?
Gli uomini che occupano uno spazio di primo
piano sulla scena politica dispongono
di un potere reale?
Il mondo degli affari è viziato da società segrete?
Molti sostengono che potenti personaggi
esercitino un controllo assoluto su tutti gli eventi mondiali.
È il problema essenziale che tratteremo in
questa inchiesta, dove si dimostra, attraverso una serie di esempi
stupefacenti, che la sorte delle Nazioni dipende, sovente, dalla volontà di
gruppi di uomini che non hanno alcuna funzione ufficiale. Si tratta di società
segrete, veri cripto-governi, che reggono la nostra sorte a insaputa di tutti.
La loro esistenza non può essere avvertita che quando un fatto imprevisto li
obbliga ad agire alla luce del sole.
Circa due
anni e mezzo prima del suo assassinio, il 27 aprile 1961, John Fitzgerald
Kennedy tenne ai rappresentanti della stampa, riuniti presso l’Hotel
Waldorf-Astoria di New York, un discorso incentrato sulla analisi e sul
pericolo della Guerra Fredda [http://www.youtube.com/watch?v=PFMbYifiXI4], tuttavia,
alcuni suoi passaggi, sembrano alludere, non alla sfida acerrima contro l’Unione
Sovietica, ma a qualcosa di altro di più oscuro e di più pericoloso.
“[…] La
stessa parola “segretezza” è ripugnante in una società libera e aperta; e noi, come popolo, siamo intimamente e storicamente contrari alle società segrete, ai giuramenti segreti e alle procedure segrete. Abbiamo deciso, molto tempo fa, che i pericoli di un eccessivo e ingiustificato occultamento di fatti pertinenti superino, di gran lunga, i pericoli che vengono invocati a
giustificazione. […]”
La storia è costellata di enigmi intorno alle
società segrete, che si tratti di potenti organizzazioni economiche, sociali,
politiche o di clubs privati
riservati a una élite.
Pressoché tutte le civiltà sono state, in un’epoca
o in un’altra, il rifugio di queste società dell’ombra: riunioni dietro porte
chiuse, divieto di rivelare ciò che si dice all’esterno, sospetto a ogni gesto
o parola di uno dei membri...
Il mistero di cui le società segrete si
ammantano non è avulso dall’interesse che suscitano appena se ne parli.
E se si cercasse di squarciare questo mistero?
Che ne è della sedicente influenza delle società
segrete attraverso la storia?
Sono state, sono così potenti come si pretende?
Vi è motivo di temerle?
Tante domande alla partenza di una appassionante
incursione nel cuore delle società segrete più celebri della storia.
In questo reportage,
solidamente documentato, penetreremo all’interno delle società segrete più
conosciute, riassumendone la storia, descrivendone i riti di iniziazione, i
segni e il linguaggio, che sono loro propri.
Se le voci che circondano le società segrete,
rispondono, in parte, alla sete di meraviglioso, che ci viene dalla nostra
infanzia, contribuiscono, troppo sovente, ad assumere un pensiero non critico,
che degenera, facilmente, in paranoia.
Dedicare una inchiesta alle società segrete in
un mondo, in cui la cultura del segreto [di Stato, scientifico, nucleare, ecc.]
viene, incessantemente, a ricordarci che, in quanto semplici cittadini, noi
restiamo fuori degli arcani di una conoscenza superiore, cui solo gli “eletti”
[capi di Stato, militari, diplomatici, spie, ecc.] possono accedere, mi è
sembrata una idea luminosa e illuminante.
Non sono, certo, la prima, tuttavia, i miei predecessori
sono stati, sovente, credibili, ma discutibili, perché, occorrendo un inizio di
cui non si aveva prova, questo è stato, sovente, su un continente scomparso o
su un disco volante.
Una delle numerose tesi ricorrenti sulle società
segrete è che le suddette
società segrete funzionino come le nostre società “reali”, di cui rappresentano
dei doppi sovversivi, critici, inaccessibili, ma anche necessari per
controbilanciare l’ordine mondiale, governato dai poteri temporali, sensatamente trasparenti, perché eletti secondo
principi democratici.
Scrive Georg Simmel:
“Le società
segrete sono, per così dire, delle repliche in miniatura del “mondo ufficiale”,
al quale resistono e si oppongono.”
L’inizio delle società segrete si perde,
necessariamente, nella rarefazione delle tracce di un passato sempre più
lontano: Grecia, Egitto dei faraoni neri, Sumer e, forse, oltre…
“In
principio era il buio.”
Sarebbe stato più comodo iniziare dalla fine,
giacché le società stesse sono alla ricerca delle loro origini.
“Poi fu la
luce.”
Allorché si ergeva nella direzione da cui veniva
la luce, l’uomo era in contatto con il divino e le difficoltà materiali della
vita, che, forse, formavano, allora, una unica cosa, ma che sarebbero divenute,
con la nascita del verbo e il risveglio dell’uomo alla parola, i due poli della sua esistenza.
Nessuno sa quanto tempo l’uomo sia vissuto al
riparo del dubbio neppure se ne sia stato, mai, abitato.
Ma che la sua prima parola sia stata un inno
alla natura o una espressione del suo bisogno alimentare… ben presto, l’uomo
iniziò a tentare di condividere le proprie idee con i suoi fratelli e, ben
presto, i più sottili di questi concetti richiesero più che parole: la
trasmissione dell’esperienza e, dunque, l’iniziazione.
È possibile che le prime iniziazioni abbiano
riguardato il modo di sopravvivere nella divina natura circostante. O che
abbiano trasmesso la certezza di un mondo spirituale nascosto dietro la
materia.
Nell’Antichità, i culti misterici si
svilupparono e conobbero un grande favore nel mondo greco-romano.
In seguito, il Medioevo, teatro di guerre di
religione, dette vita ai misteriosi Templari.
Nel Rinascimento, le società segrete assunsero
tutta un’altra dimensione con il leggendario ordine dei Rosa-Croce e,
soprattutto, con la nascita della Massoneria.
Il XIX secolo segna, ancora, un’altra svolta: la
proliferazione delle società segrete, che hanno, come corollario,
legittimazioni, prestiti sempre più diversificati e una attrattiva per la
razionalità scientifica.
Il periodo contemporaneo è segnato da una
moltiplicazione di società segrete, in particolare nell’era di Internet, con
possibili derive settarie a apocalittiche.
La storia delle società segrete ha una
importante influenza sulla storia. Esiste una versione ufficiale della storia,
versione detta esoterica, che tiene conto delle società segrete, perché sono,
sovente, uscite dall’ombra.
Ma ciò che questa storia non dice sono le
ragioni segrete dei loro interventi.
E, per comprenderle, è alla storia esoterica che
bisognerà interessarsi.
Queste società segrete sono, profondamente,
legate alla magia, a partire dai documenti più antichi in nostro possesso.
Vi farò la grazia, tuttavia, di farne ricadere
la colpa, come è, sovente, il caso, sui massoni, sui sionisti o su Satana.
Andrò, subito, al cuore del problema,
esprimendomi senza ambage, senza temere di affrontare i sistemi criminali,
basati sul controllo, il potere e la manipolazione.
Un nuovo modo di considerare il mondo in cui
viviamo!
SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA 1. LA CAMORRA
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA 2. L’ANNORATA SOCIETA’
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA 1. LA MAFIA AL CUORE
DELLO STATO
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA 2. LA ONORATA SOCIETA’
di Daniela Zini
SOCIETA’
SEGRETE
II. LA
MAFIA 3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano
Massoneria . Parte Prima -
di
Daniela Zini
SOCIETA’
SEGRETE
II. LA
MAFIA 3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano
Massoneria . Parte Seconda -
di
Daniela Zini
SOCIETA’
SEGRETE
II. LA
MAFIA 4. MAMMA COMANDA PICCIOTTO VA E FA’
di
Daniela Zini
SOCIETA’
SEGRETE
III. I
SAMURAI 1. LA SPADA E IL CILIEGIO
di
Daniela Zini
IV. IL SOVRANO ORDINE
DEI
CAVALIERI DEL TEMPIO
“Non nobis Domine, non nobis, sed nomini tuo da gloriam.”
Grandi Maestri
del Sovrano Ordine dei Cavalieri
del Tempio
Hugues de Payens [1118-1136]
Robert de Craon [1136-1147]
Everard des Barres [1147-1149]
Bernard de Tremelay [1149-1153]
André de Montbard [1153-1156]
Bertrand de Blanchefort [1156-1169]
Philippe de Milly [1169-1171]
Odo de Saint-Amand [1171-1179]
Arnold of Torroja [1181-1184]
Gérard de Ridefort [1185-1189]
Robert de Sablé [1191-1193]
Gilbert Horal [1193-1200]
Phillipe de Plessis [1201-1208]
Guillaume de Chartres [1209-1219]
Pedro de Montaigu [1218-1232]
Armand de Périgord [1232-1244]
Richard de Bures [1244/5-1247]
Guillaume
de Sonnac [1247-1250]
Renaud
de Vichiers [1250-1256]
Thomas Bérard [1256-1273]
Guillaume de Beaujeu [1273-1291]
Thibaud Gaudin [1291-1292]
Jacques de Molay [1292-1314]
1. IL PROCESSO DEI CAVALIERI DEL TEMPIO
di
Daniela Zini
uesta è la storia
di uno dei più clamorosi casi politici e giudiziari che la storia ricordi: il
cosiddetto “affare dei Cavalieri del Tempio”, che tenne desta la attenzione dell’Europa,
dal 13 ottobre 1307 al 18 marzo 1314.
Ma chi erano
i Pauperes
Commilitones Christi Templique Salomonis [Poveri Compagni d’Armi di Cristo e del Tempio Di Salomone],
meglio noti come Cavalieri del Tempio
o, semplicemente, Templari?
Il Sovrano
Ordine dei Cavalieri del Tempio
era stato fondato, nel 1118, da Re Baldovino
II di Gerusalemme, che gli aveva assegnato, nella Città Santa, l’Arca del
Tempio di Salomone, dal quale prese il nome. Doveva costituire una sorta di
milizia professionista, in difesa della Terra Santa, per disciplinare e aiutare
in battaglia le orde confuse ed entusiaste dei Crociati.
“Capelli rasati, barba ispida, sporca di polvere, neri di ferro e abbronzati dal sole.”,
come li
descrive Saint-Bernard de Clairvaux [1090-1153], i
Templari dovevano lottare senza quartiere per la difesa del Regno Cristiano di
Gerusalemme e, presi prigionieri, non potevano pagare riscatto, come l’uso
medioevale avrebbe loro consentito. Vivevano la vita pericolosa dei soldati,
senza poterne condividere l’onore e la gloria delle insegne, e la vita ascetica
dei monaci, senza poterne godere la pace e la tranquillità dei conventi.
Si muovevano
a cavallo, su purosangue arabi, veloci e focosi, e si mostravano, croce rossa
sull’ampio mantello bianco, nei momenti di maggiore pericolo, a proteggere i
pellegrini e i piccoli distaccamenti militari dalle aggressioni improvvise dei
musulmani. In cambio, erano loro accordati singolari privilegi. Innanzitutto,
rispondevano dei propri atti solo al Papa, sfuggendo, in tale modo, alla
giurisdizione dei sovrani, che chiedevano la loro opera. Questo, praticamente,
voleva dire che non dipendevano da nessuno – troppo lontano il Papa e troppo
preso dagli altri affari ecclesiastici – se non dalle maggiori autorità
dell’Ordine stesso. Inoltre, vennero, ben presto, esentati da tributi di ogni
genere e autorizzati a tenere per sé le terre conquistate. Aggiungendo a questi
privilegi le numerose donazioni e i numerosi lasciti, è facile comprendere
come, in breve tempo, l’Ordine venisse ad acquistare una importanza pari a
quella di un grande Stato Sovrano e una ricchezza capace di fare concorrenza
alle maggiori potenze economiche dell’epoca. Così, ogni giovane di nobile
famiglia e di grandi ambizioni si sentiva attratto da quella prestigiosa
bandiera che gli prometteva esaltanti avventure, lauti guadagni e gloriose
opportunità.
Naturalmente,
raggiunta una simile potenza, i Templari si erano, a poco a poco, allontanati
dalle finalità iniziali, soprattutto quando – perduta, definitivamente, la
Palestina e ridotte le Crociate a un pretesto, sempre meno frequente, per
contatti commerciali con il Vicino Oriente – l’Ordine vide svanire le sue
essenziali ragioni di essere. Le ultime imprese militari non avevano, sempre,
avuto esito molto felice: ostacolati dalle accanite rivalità tra i grandi
sovrani e impacciati da truppe più entusiaste che efficienti, i Templari
subirono rovesci clamorosi e commisero errori palesi.
Nel 1191,
alla fine del Regno Cristiano di Gerusalemme, il Sovrano Ordine dei Cavalieri
del Tempio possedeva ricchezze inaudite, cui era indispensabile trovare impiego.
Si calcolano novecento castelli, sparsi in tutta l’Europa, centocinquantamila
fiorini d’oro e quantità enormi di argento. Senza contare la casa madre di
Parigi: un enorme quartiere, che ne porta, ancora oggi, il nome.
Così, i
Templari divennero banchieri: la più importante banca di Europa. Assumevano la
amministrazione di intere province – per un secolo, perfino, l’Impero Romano di
Oriente fu sottomesso alla loro autorità –; anticipavano il danaro necessario
al riscatto dei prigionieri; prestavano su garanzia; muovevano somme
sbalorditive, in un mondo, che, solo a loro, permetteva le più ampie libertà
economiche. Quindicimila Templari, ben raramente costretti a partecipare a
spedizioni militari, esercitavano funzioni amministrative, allontanandosi sempre
più dagli scopi iniziali dell’Ordine e accumulando enormi ricchezze, sempre più
difficilmente difendibili dallo scatenarsi degli appetiti dei più potenti
signori dell’epoca. Questo fu uno dei motivi che provocarono, più tardi, il
crollo improvviso dell’Ordine; ma le considerazioni di carattere economico, di
per se stesse sufficienti a causarne la rovina, non potevano, nel Medio Evo,
tramutarsi in provvedimenti efficaci senza un pretesto religioso. I lunghi
soggiorni, in Oriente, avevano, certamente, favorito un contatto tra i Templari
e i riti esoterici, tramandati dal cristianesimo primitivo o addirittura dalle
antiche teologie orientali. A tale proposito, molti storici hanno
favoleggiato di dottrine misteriose e di
complesse cerimonie di iniziazione, basate, tuttavia, su ben pochi documenti
obiettivi. Di certo, è noto che il futuro Cavaliere del Tempio doveva, per
essere ammesso, rinnegare Cristo, sputando sulla Croce, come a proclamare la
propria indegnità di uomo, che solo il Tempio avrebbe potuto redimere. Il
Tempio, dunque, finiva per assumere una straordinaria importanza, divenendo, in
sostanza, un simbolo magico della divinità. Gli storici hanno, anche, discusso,
lungamente, sulle cosiddette figure bafometiche,
misteriosi idoli con teste di gatto, nonché su altri segni rituali di
significato ignoto. Bastava anche meno alla Inquisizione medioevale, se
opportunamente aizzata in tal senso, per accusare i Templari di idolatria, di
pratiche diaboliche e di stregoneria, imputazioni più che sufficienti, allora,
per mandare al rogo chiunque. Questo era, dunque, il Sovrano Ordine dei
Cavalieri del Tempio, nell’ottobre del 1307: un enorme colosso dai piedi di
argilla, una potenza gigantesca, esposta agli attacchi di nemici, decisi a
tutto pur di carpirne quelle immense ricchezze. Primo tra tutti, il Re di
Francia, Philippe IV [1268-1314], che, impegnato in una lotta accanita per
esautorare il potere feudale e affermare la propria assoluta sovranità, non
poteva vedere, favorevolmente, la presenza, nella sua stessa capitale, di una
forza così smisurata e così assolutamente autonoma. Cercò, dapprima, di entrare
a fare parte dell’Ordine, nell’intento di diventarne il Gran Maestro di Francia
e di Oltremare, vale a dire la più alta autorità; ma il Capitolo dei Templari,
presieduto dal Gran Maestro in carica, Jacques de Molay [1243-1314], aveva,
subito, respinto la sua domanda, appellandosi allo statuto, che impediva di
accogliere tra i Templari i Principi sovrani.
Ritratto di Philippe le Bel - Jacob van Laethem [1470–1528]
Philippe le Bel, il “Re di ferro” dalla gelida
bellezza, fu insensibile agli affetti e a qualsiasi forma di pietà.
Giuramento
dei Cavalieri del Tempio
Philippe le
Bel non perdonò l’offesa e iniziò, immediatamente, una sorda campagna ai danni
dei Templari. Tolse alla loro guardia il Tesoro del Regno – che aveva affidato
all’Ordine, quando, qualche anno prima, una violenta sommossa popolare lo aveva
costretto a chiedere loro rifugio – e fece diffondere tra il popolo notizie
estremamente diffamatorie sul loro conto.
I Cavalieri
del Tempio erano accusati di diretta responsabilità nelle carestie che,
periodicamente, affliggevano il Paese; di dedicare le proprie forze più
all’accumulamento di beni materiali che alla riconquista del Sepolcro di
Cristo; di bestemmiare e di praticare, su larga scala, abitudini contro natura.
Poi, con il pretesto di mettere a tacere queste voci, Philippe le Bel ordinò
una grande inchiesta in tutto il Regno.
Donjon du Coudray a Chinon.
Il 12
ottobre 1307, Jacques de Molay partecipava, in posizione di onore, ai funerali
della cognata del Re Philippe IV, Catherine de Courtenay [1274-1307], contessa
de Valois. L’indomani,
un venerdì tredici, con una gigantesca retata, preparata con cura particolare,
Philippe le Bel faceva arrestare, all’alba, tutti i Templari di Francia,
accusandoli di eresia in nome dell’Inquisizione.
Guillaume de
Nogaret [1260-1313], Guardasigilli di Francia, ben noto per aver partecipato,
quattro anni prima, alla spedizione di Anagni, conclusasi con un sacrilego
schiaffo, inferto da Sciarra Colonna a
Papa Bonifacio VIII, andò, personalmente, ad arrestare lo stesso Jacques de
Molay e i centoquaranta cavalieri della casa madre.
Era Papa,
allora, Clemente V,
nato Bertrand de Got [1264-1314], che doveva la tiara a Philippe le Bel e che,
per compiacere il suo protettore, aveva trasferito la Santa Sede da Roma a
Poitiers. Tuttavia, non poteva accettare un simile sopruso. Si trattava, in
pratica, di un conflitto di poteri; e il Pontefice aveva, inoltre, interesse a
mantenere intatta una forza, come quella dei Templari, di cui avrebbe, sempre,
potuto disporre. Così, disapprovò l’opera di Re Philippe IV e revocò l’autorità
dei giudici ecclesiastici parigini, indispensabili alla Corona per poter
condurre un processo per eresia.
Castello
di Miravet [Spagna]
La
inespugnabile Fortezza di Miravet, proprietà dell’Ordine del Tempio, fino dalla
sua conquista, nel 1153, è formata da un doppio recinto fortificato, separato
da un corridoio interno tra due fila di mura. Il perimetro di quelle esterne
misura 600 metri
circa, quello interno 290
metri.
Lo spazio interno integra corte d’armi e corpo di guardia, circondati da
diverse dipendenze [dormitorio, scuderie, refettorio, magazzino, granaio e
cantina]. Da segnalare, in particolare, il salone, al quale si accede, varcando
una porta ad arco rialzato, e la Chiesa romanica dedicata a Sant Martí [XIII
secolo], a navata unica con volta a botte a sesto leggermente acuto e abside
semicircolare con volta a forno.
Lo
spazio più esterno comprendeva altre scuderie, una cisterna e la Cappella di
Sant Miquel.
Philippe le
Bel promise, allora, al Papa di consegnare a lui i prigionieri, chiedendo in
cambio di poter confiscare i beni del Tempio, a profitto del Tesoro di Francia,
e di vedere, nuovamente, i giudici investiti della propria carica. Il Papa
accettò la proposta e, subito, il Re ordinò, con una lettera del 24 agosto
1307, al Grande Inquisitore di Francia, Guillaume Humbert, un domenicano
avverso ai Templari, anche per rivalità di Ordine, di iniziare gli
interrogatori, valendosi di tutti i mezzi a disposizione della giustizia di
quel tempo, torture comprese.
I risultati
non si fecero attendere. In breve tempo, il Re ottenne ben centoquaranta
confessioni, cui diede la più ampia pubblicità; poi, convocò a Tours, nel
maggio del 1308, i cosiddetti Stati Generali, vale a dire una assemblea
consultiva, in cui erano rappresentate le tre classi del Regno, nobiltà, clero
e borghesia, ed espose loro le proprie vedute su questa importante questione,
ottenendo unanimi approvazioni, anche nei confronti del Papa. Poi, per meglio
convincere Clemente V, piombò a Poitiers e costrinse il Pontefice, praticamente
suo prigioniero, a redigere una bolla in cui si invitava ogni Vescovo a
giudicare secondo il diritto. La formula era vaga, ma autorizzava, ufficialmente,
il rinvio a giudizio dei Templari.
L’Arcivescovo
di Sens, dal quale dipendeva la diocesi di Parigi, venne incaricato dal Re
Philippe le Bel di occuparsi di questo processo; mentre il Papa, che era
riuscito a lasciare Poitiers e a rifugiarsi ad Avignone, città meno facilmente
controllabile dalla Corona francese, nominò una commissione, presieduta
dall’arcivescovo di Narbonne, Gilles Aycelin I de Montaigut [1252-1318], che
mandò, immediatamente, a Parigi, per prendere in esame tutta la faccenda. Non
era certo un compito facile: da una parte, il potere civile cercava di
impedire, con minacce e torture, che si presentassero testimoni a discolpa;
dall’altra, il potere religioso ostacolava, con tutti i mezzi, a sua
disposizione, il normale svolgimento delle indagini. Molti Vescovi, a esempio,
si rifiutavano di consegnare i Templari, catturati nella loro diocesi.
Finalmente,
nel novembre dello stesso anno, la commissione iniziò l’interrogatorio di
Jacques de Molay.
Il vecchio
Gran Maestro difese, accanitamente, l’Ordine, respingendo le testimonianze, che
l’accusa aveva raccolto, e proclamando la assoluta innocenza del Tempio. Andò,
allora, a parlargli un inviato di Philippe le Bel e lo convinse a chiedere un
rinvio di ventiquattro ore. Non ci è dato sapere cosa accadde, quel giorno;
certo è che, l’indomani, Jacques de Molay interrompeva, bruscamente, la propria
difesa, rimettendosi, interamente, alle decisioni del Pontefice.
Si arrivò,
così, al 28 marzo 1310, quando la commissione pontificia riuscì a convocare ben
centocinquantasei Cavalieri del Tempio, che si proclamavano tutti innocenti, Costoro
incaricarono a rappresentarli un gruppo di delegati con il compito di
respingere ogni accusa, di tacciare di apostasia tutti coloro che avevano
confessato e di denunciare la giustizia del Re per averli, selvaggiamente,
torturati. Queste dichiarazioni, subito, divulgate, suscitarono violente
reazioni in tutti gli ambienti, tanto più che, fuori di Francia, i concili
vescovili continuavano ad assolvere i Templari.
La
situazione minacciava, dunque, di evolversi in senso assai poco propizio a Philippe
IV. Ma il Re aveva fatto nominare Arcivescovo di Sens, Philippe Leportier de
Marigny, fratellastro del Primo Ministro di Francia Enguerrand de Marigny
[1260-1315], che, richiamandosi alla bolla del 1308, riunì un concilio
provinciale, convocando i Cavalieri del Tempio.
Era il 10
maggio 1310.
I delegati
dei Templari ribelli presentarono appello alla commissione pontificia,
chiedendo di potere esporre le proprie ragioni anche davanti a quel tribunale.
Ma l’Arcivescovo di Narbonne, Gilles Aycelin I de Montaigut, respinse questa
richiesta, dichiarando di non avere alcuna giurisdizione sul tribunale
presieduto da Philippe Leportier de Marigny e abbandonando, così, gli
sciagurati Templari agli arbitri del Re.
Le
conseguenze di questa decisione non si fecero attendere.
Il 12 maggio, Philippe Leportier de
Marigny condannava al rogo ben cinquantaquattro Templari, rei di aver
ritrattato le precedenti confessioni e, benché la commissione pontificia
elevasse, immediatamente, la sua protesta, fece eseguire, al più presto, la
sentenza. Da quel momento, tutti i testimoni che dovevano deporre davanti alla
commissione, legittimamente intimoriti dalle minacce, fin troppo implicite in
questo clamoroso avvenimento, parlarono con assai minore coraggio, impedendo,
praticamente, alla commissione di continuare i suoi lavori. Tanto più che Philippe
de Marigny aveva, anche, respinto una richiesta di salvaguardia per i delegati
ufficiali dei Templari.
L’11 giugno
1311, la commissione pontificia chiuse la propria attività, abbandonando la
partita nelle mani dell’Arcivescovo di Sens, Philippe Leportier de Marigny, cui
proponeva lo scioglimento dell’Ordine, la confisca dei beni e l’imprigionamento
di tutti i Templari, esigendo soltanto che non venissero più sottoposti a
torture.
Ma Philippe
IV non aveva ancora vinto: gli mancava la adesione ufficiale del Papa, sola
autorità competente a decretare una condanna definitiva. Minacciandolo di un
processo alla memoria di Bonifacio VIII – processo che avrebbe posto in
discussione la essenza stessa del Papato – costrinse Clemente V a riunire un Concilio
a Vienne, nel Delfinato, per prendere una decisione definitiva sul dibattuto
problema.
Era il 16
ottobre 1312; ma l’umore dei Vescovi non era, certo, favorevole a una condanna
indiscriminata dell’Ordine. Così, Clemente V cercò di temporeggiare: impedì ai
Templari di presentare la propria difesa, imprigionandone i delegati, e cercò
di convincere, uno alla volta, tutti i prelati più pronti ad assolvere.
La cosa
minacciava di durare troppo a lungo e Philippe le Bel aveva fretta di sistemare
la questione.
Nella primavera
del 1313, riuscì a impadronirsi di Lione, precedentemente governata da un Vescovo-Conte,
e a minacciare di là il Concilio stesso, esigendo, al più presto, una decisione
definitiva.
Il 3 aprile
di quello stesso anno, Clemente V, riuniti a concistoro i Vescovi e i Cardinali
più devoti ai suoi voleri, sciolse di autorità l’Ordine del Tempio,
confiscandone i beni a profitto dei Cavalieri
dell'Ordine dell'Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme [Cavalieri di
Malta] e lasciando alla Corona di Francia la gestione temporanea dei beni
stessi, una massiccia indennità e piena autorità sui Templari superstiti.
Ritratto di Papa Clemente V
Con questo
atto di abdicazione di un Papa, troppo asservito alla Francia e troppo debole
per potersi opporre agli interessi di quel Regno, per la prima volta, nella
Storia un Ordine religioso veniva soppresso, esclusivamente, per volontà del
potere civile, senza che potesse trovare nelle supreme autorità ecclesistiche
né protezione né aiuto.
Castello
di Ponferrada [Spagna]
Il Castello
templare di Ponferrada è una costruzione superba. Ospita la Biblioteca Templare
e il Centro di Ricerca e Studi Storici di Ponferrada. In origine, fu un
accampamento e, più tardi, una cittadella romana. Agli inizi del XII secolo, i
Templari si impossessarono della fortezza, rafforzandola e ampliandola, per
servire come palazzo abitabile e come protezione per i pellegrini, che si
dirigevano verso Santiago di Compostela.
Una lunga
serie di condanne tenne dietro a questo gigantesco processo, conclusosi,
definitivamente, il 18 marzo 1314.
La mattina
di quel giorno, i quattro superstiti – ufficialmente, si intende, perché molti
Templari si erano sottratti alla giustizia del Re, lasciando la Francia o
rifugiandosi presso Vescovi o Baroni a loro meno sfavorevoli – e, precisamente:
il Gran Maestro, Jacques de Molay; il Visitatore di Francia, Hugues de Pairaud;
il Precettore di Normandia, Geoffroy de Charny e il Precettore di Aquitania e
Poitou, Geoffroy de Gonneville, vennero condotti dalla prigione al sagrato della
Cattedrale di Notre-Dame, dove un delegato pontificio lesse loro la sentenza
definitiva, come a manifestare, ancora una volta, la piena solidarietà della
Santa Sede con la politica di Philippe le Bel.
Al
momento della morte sul rogo, Jacques de Molay avrebbe dannato la casa di
Francia “fino alla tredicesima
generazione”, si è diffusa, così, la leggenda secondo cui l’esecuzione di
Louis XVI durante la Rivoluzione Francese – che pose fine alla Monarchia
Assoluta in Francia – sarebbe stata il coronamento della vendetta dei Cavalieri
del Tempio. Alcuni storici dell’epoca riportarono la notizia che il boia
Charles-Henri Sanson, prima di calare la ghigliottina sulla testa del sovrano,
gli avrebbe mormorato:
“Io sono un Templare, e sono qui per portare a
compimento la vendetta di Jacques de Molay.”
Sul
luogo della esecuzione, ai piedi del Pont Neuf, vi è una lapide a ricordare il
tragico evento.
Castello
di Tomar [Portogallo]
Il
Castello templare di Tomar è a poco più di cento chilometri da Lisbona. Fu
costruito dopo la soppressione dell’Ordine Sovrano dei Cavalieri del Tempio,
accusato di eresia e di idolatria. Principale responsabile della persecuzione
dei Templari fu il Re di Francia, Philippe le Bel, che mirava al patrimonio
templare, e, dopo il processo, riuscì a incamerarne una parte. Tuttavia, alcuni
sovrani europei continuarono a dare sostegno ai Templari; uno di questi fu il
Re del Portogallo, Dinis I, che li usò come alleati nella lotta contro i mori.
Con il suo aiuto, i Templari sopravvissuti fondarono l’Ordine dei Cavalieri di
Cristo e, nel 1357, scelsero Tomar come loro quartiere generale. Il castello,
molto ben conservato, è, oggi, uno dei patrimoni mondiali dell’umanità
dell’UNESCO.
La condanna
era relativamente mite, il carcere a vita; ma Jacques de Molay e Geoffroy de
Charny respinsero la accusa, proclamandosi innocenti e sostenendo che solo le
torture avevano potuto costringerli a dichiararsi rei. La reazione del Re di
Francia non si fece attendere: quella stessa sera, i due Templari furono
mandati sul rogo.
Una curiosa
leggenda narra che Jacques de Molay, prima di precipitare tra le fiamme,
maledicesse i suoi principali persecutori, predicendone la morte entro un anno
ed estendendo l’anatema ai discendenti del Re di Francia.
Non sappiamo,
naturalmente, quale credito attribuire a questa leggenda. Certo è che,
puntualmente, Papa Clemente V morì dopo un mese, il 20 aprile 1314, e il Re
Filippo IV, il 29 novembre 1314, e che la Francia, estintasi rapidamente la
dinastia dei Capetingi diretti, con la scomparsa dei tre figli di Philippe IV,
fu, poi, sconvolta da una delle più terribili catastrofi della sua storia, una
guerra di successione durata ben centosedici anni – anche se viene,
comunemente, chiamata la Guerra dei Cento Anni – nel corso della quale le
truppe d’Inghilterra percorsero il Paese da trionfatrici e inauditi disagi
resero la vita dura agli infelici sudditi del Re di Francia.
Toccò, dunque, a loro scontare le maledizioni
che Jacques de Molay aveva scagliato sulle teste dei loro sovrani.
Poi venne
Giovanna d’Arco.
Ma questa è
un’altra storia.
Daniela Zini
Copyright © 25 marzo 2015 ADZ
President John F. Kennedy
Waldorf-Astoria Hotel, New York City
April 27,
1961
Mr.
Chairman, ladies and gentlemen:
I
appreciate very much your generous invitation to be here tonight.
You bear
heavy responsibilities these days and an article I read some time ago reminded
me of how particularly heavily the burdens of present day events bear upon your
profession.
You may
remember that in 1851 the New York Herald
Tribune under the sponsorship and publishing of Horace Greeley, employed as its
London
correspondent an obscure journalist by the name of Karl Marx.
We are told
that foreign correspondent Marx, stone broke, and with a family ill and
undernourished, constantly appealed to Greeley
and managing editor Charles Dana for an increase in his munificent salary of $5
per instalment, a salary which he and Engels ungratefully labelled as the
“lousiest petty bourgeois cheating.”
But when
all his financial appeals were refused, Marx looked around for other means of
livelihood and fame, eventually terminating his relationship with the Tribune
and devoting his talents full time to the cause that would bequeath the world
the seeds of Leninism, Stalinism, revolution and the cold war.
If only
this capitalistic New York
newspaper had treated him more kindly; if only Marx had remained a foreign
correspondent, history might have been different. And I hope all publishers
will bear this lesson in mind the next time they receive a poverty-stricken
appeal for a small increase in the expense account from an obscure newspaper
man.
I have
selected as the title of my remarks tonight “The President and the Press.” Some
may suggest that this would be more naturally worded “The President Versus the
Press.” But those are not my sentiments tonight.
It is true,
however, that when a well-known diplomat from another country demanded recently
that our State Department repudiate certain newspaper attacks on his colleague
it was unnecessary for us to reply that this Administration was not responsible
for the press, for the press had already made it clear that it was not
responsible for this Administration.
Nevertheless,
my purpose here tonight is not to deliver the usual assault on the so-called
one party press. On the contrary, in recent months I have rarely heard any
complaints about political bias in the press except from a few Republicans. Nor
is it my purpose tonight to discuss or defend the televising of Presidential
press conferences. I think it is highly beneficial to have some 20,000,000
Americans regularly sit in on these conferences to observe, if I may say so,
the incisive, the intelligent and the courteous qualities displayed by your Washington
correspondents.
Nor,
finally, are these remarks intended to examine the proper degree of privacy
which the press should allow to any President and his family.
If in the
last few months your White House reporters and photographers have been
attending church services with regularity, that has surely done them no harm.
On the
other hand, I realize that your staff and wire service photographers may be
complaining that they do not enjoy the same green privileges at the local golf
courses that they once did.
It is true
that my predecessor did not object as I do to pictures of one’s golfing skill
in action. But neither on the other hand did he ever bean a Secret Service man.
My topic
tonight is a more sober one of concern to publishers as well as editors.
I want to
talk about our common responsibilities in the face of a common danger. The
events of recent weeks may have helped to illuminate that challenge for some;
but the dimensions of its threat have loomed large on the horizon for many
years. Whatever our hopes may be for the future - for reducing this threat or
living with it - there is no escaping either the gravity or the totality of its
challenge to our survival and to our security - a challenge that confronts us
in unaccustomed ways in every sphere of human activity.
This deadly
challenge imposes upon our society two requirements of direct concern both to
the press and to the President - two requirements that may seem almost
contradictory in tone, but which must be reconciled and fulfilled if we are to
meet this national peril. I refer, first, to the need for a far greater public
information; and, second, to the need for far greater official secrecy.
I
The very
word “secrecy” is repugnant in a free and open society; and we are as a people
inherently and historically opposed to secret societies, to secret oaths and to
secret proceedings. We decided long ago that the dangers of excessive and
unwarranted concealment of pertinent facts far outweighed the dangers which are
cited to justify it. Even today, there is little value in opposing the threat
of a closed society by imitating its arbitrary restrictions. Even today, there
is little value in insuring the survival of our nation if our traditions do not
survive with it. And there is very grave danger that an announced need for
increased security will be seized upon by those anxious to expand its meaning
to the very limits of official censorship and concealment. That I do not intend
to permit to the extent that it is in my control. And no official of my
Administration, whether his rank is high or low, civilian or military, should
interpret my words here tonight as an excuse to censor the news, to stifle
dissent, to cover up our mistakes or to withhold from the press and the public
the facts they deserve to know.
But I do
ask every publisher, every editor, and every newsman in the nation to reexamine
his own standards, and to recognize the nature of our country’s peril. In time
of war, the government and the press have customarily joined in an effort based
largely on self-discipline, to prevent unauthorized disclosures to the enemy.
In time of “clear and present danger,” the courts have held that even the
privileged rights of the First Amendment must yield to the public’s need for
national security.
Today no
war has been declared - and however fierce the struggle may be, it may never be
declared in the traditional fashion. Our way of life is under attack. Those who
make themselves our enemy are advancing around the globe. The survival of our
friends is in danger. And yet no war has been declared, no borders have been
crossed by marching troops, no missiles have been fired.
If the
press is awaiting a declaration of war before it imposes the self-discipline of
combat conditions, then I can only say that no war ever posed a greater threat
to our security. If you are awaiting a finding of “clear and present danger,”
then I can only say that the danger has never been more clear and its presence
has never been more imminent.
It requires
a change in outlook, a change in tactics, a change in missions - by the
government, by the people, by every businessman or labor leader, and by every
newspaper. For we are opposed around the world by a monolithic and ruthless
conspiracy that relies primarily on covert means for expanding its sphere of
influence - on infiltration instead of invasion, on subversion instead of
elections, on intimidation instead of free choice, on guerrillas by night
instead of armies by day. It is a system which has conscripted vast human and
material resources into the building of a tightly knit, highly efficient
machine that combines military, diplomatic, intelligence, economic, scientific
and political operations.
Its
preparations are concealed, not published. Its mistakes are buried, not
headlined. Its dissenters are silenced, not praised. No expenditure is
questioned, no rumor is printed, no secret is revealed. It conducts the Cold
War, in short, with a war-time discipline no democracy would ever hope or wish
to match.
Nevertheless,
every democracy recognizes the necessary restraints of national security - and
the question remains whether those restraints need to be more strictly observed
if we are to oppose this kind of attack as well as outright invasion.
For the
facts of the matter are that this nation’s foes have openly boasted of
acquiring through our newspapers information they would otherwise hire agents
to acquire through theft, bribery or espionage; that details of this nation’s
covert preparations to counter the enemy’s covert operations have been
available to every newspaper reader, friend and foe alike; that the size, the
strength, the location and the nature of our forces and weapons, and our plans
and strategy for their use, have all been pinpointed in the press and other
news media to a degree sufficient to satisfy any foreign power; and that, in at
least in one case, the publication of details concerning a secret mechanism
whereby satellites were followed required its alteration at the expense of
considerable time and money.
The
newspapers which printed these stories were loyal, patriotic, responsible and
well-meaning. Had we been engaged in open warfare, they undoubtedly would not
have published such items. But in the absence of open warfare, they recognized
only the tests of journalism and not the tests of national security. And my
question tonight is whether additional tests should not now be adopted.
The
question is for you alone to answer. No public official should answer it for
you. No governmental plan should impose its restraints against your will. But I
would be failing in my duty to the nation, in considering all of the
responsibilities that we now bear and all of the means at hand to meet those
responsibilities, if I did not commend this problem to your attention, and urge
its thoughtful consideration.
On many
earlier occasions, I have said - and your newspapers have constantly said -
that these are times that appeal to every citizen’s sense of sacrifice and
self-discipline. They call out to every citizen to weigh his rights and
comforts against his obligations to the common good. I cannot now believe that
those citizens who serve in the newspaper business consider themselves exempt
from that appeal.
I have no
intention of establishing a new Office of War Information to govern the flow of
news. I am not suggesting any new forms of censorship or any new types of
security classifications. I have no easy answer to the dilemma that I have
posed, and would not seek to impose it if I had one. But I am asking the
members of the newspaper profession and the industry in this country to
re-examine their own responsibilities, to consider the degree and the nature of
the present danger, and to heed the duty of self-restraint which that danger
imposes upon us all.
Every
newspaper now asks itself, with respect to every story: “Is it news?” All I
suggest is that you add the question: “Is it in the interest of the national
security?” And I hope that every group in America - unions and businessmen
and public officials at every level - will ask the same question of their
endeavors, and subject their actions to the same exacting tests.
And should
the press of America
consider and recommend the voluntary assumption of specific new steps or
machinery, I can assure you that we will cooperate whole-heartedly with those
recommendations.
Perhaps
there will be no recommendations. Perhaps there is no answer to the dilemma
faced by a free and open society in a cold and secret war. In times of peace,
any discussion of this subject, and any action that results, are both painful
and without precedent. But this is a time of peace and peril which knows no
precedent in history.
II
It is the
unprecedented nature of this challenge that also gives rise to your second
obligation - an obligation which I share. And that is our obligation to inform
and alert the American people - to make certain that they possess all the facts
that they need, and understand them as well - the perils, the prospects, the
purposes of our program and the choices that we face.
No
President should fear public scrutiny of his program. For from that scrutiny
comes understanding; and from that understanding comes support or opposition.
And both are necessary. I am not asking your newspapers to support the
Administration, but I am asking your help in the tremendous task of informing
and alerting the American people. For I have complete confidence in the
response and dedication of our citizens whenever they are fully informed.
I not only
could not stifle controversy among your readers - I welcome it. This
Administration intends to be candid about its errors; for as a wise man once
said: “An error does not become a mistake until you refuse to correct it.” We
intend to accept full responsibility for our errors; and we expect you to point
them out when we miss them.
Without
debate, without criticism, no Administration and no country can succeed - and
no republic can survive. That is why the Athenian lawmaker Solon decreed it a
crime for any citizen to shrink from controversy. And that is why our press was
protected by the First Amendment - the only business in America specifically
protected by the Constitution - not primarily to amuse and entertain, not to
emphasize the trivial and the sentimental, not to simply “give the public what
it wants” - but to inform, to arouse, to reflect, to state our dangers and our
opportunities, to indicate our crises and our choices, to lead, mold, educate
and sometimes even anger public opinion.
This means
greater coverage and analysis of international news - for it is no longer far
away and foreign but close at hand and local. It means greater attention to
improved understanding of the news as well as improved transmission. And it
means, finally, that government at all levels, must meet its obligation to
provide you with the fullest possible information outside the narrowest limits
of national security - and we intend to do it.
III
It was
early in the Seventeenth Century that Francis Bacon remarked on three recent
inventions already transforming the world: the compass, gunpowder and the
printing press. Now the links between the nations first forged by the compass
have made us all citizens of the world, the hopes and threats of one becoming
the hopes and threats of us all. In that one world’s efforts to live together,
the evolution of gunpowder to its ultimate limit has warned mankind of the
terrible consequences of failure.
And so it
is to the printing press - to the recorder of man’s deeds, the keeper of his
conscience, the courier of his news - that we look for strength and assistance,
confident that with your help man will be what he was born to be: free and
independent.
http://www.youtube.com/watch?v=AKhUbOxM2ik
“Da qualche tempo si diffonde la notizia che
un nuovo genere di Cavalleria è apparso nel mondo, e proprio in quella contrada
che un giorno Colui che si leva dall’alto visitò essendosi reso manifesto nella
carne; in quegli stessi luoghi dai quali Egli con la potenza della sua mano
(Is, 10,13) scacciò i principi delle tenebre, possa oggi annientare con la
schiera dei suoi forti seguaci di quelli, i figli dell’incredulit, riscattando
di nuovo il suo popolo e suscitando per noi un Salvatore nella casa di David,
suo servo. (Ef, 2, 2; Lc, 1, 69). Un nuovo genere di Cavalieri, dico, che i
tempi passati non hanno mai conosciuto: essi combattono senza tregua una
duplice battaglia, sia contro la carne ed il sangue, sia contro gli spiriti
maligni del mondo invisibile. (Ef, 6, 12). In verità quando valorosamente si
combatte con le sole forze psichiche contro un nemico terreno, io non ritengo
ciò stupefacente né eccezionale. E quando col valore dell’anima si dichiari
guerra ai vizi o ai demoni, neppure allora dirò che questo è segno di
ammirazione, sebbene questa battaglia sia degna di lode, al momento che il
mondo è pieno di monaci. Ma quando il combattente ed il monaco con il coraggio
si cingono ciascuno con forza la propria spada e nobilmente si fregiano del
proprio cingolo chi non potrebbe ritenere un fatto del genere davvero degno
d’ogni ammirazione, per quanto finora insolito? E’ davvero impavido e protetto
da ogni lato quel cavaliere che come si riveste il corpo di ferro, cos’ riveste
la sua anima con l’armatura della fede (I Ts, 5, 8). Nessuna meraviglia se,
possedendo entrambe le armi, non teme né il demonio né gli uomini. E nemmeno
teme la morte egli che desidera morire. Difatti cosa avrebbe da temere, in vita
o in morte, colui per il quale il Cristo è la vita e la morte un guadagno?
(Fil, I, 21). Egli sta saldo, invero, con fiducia e di buon grado per il
Cristo; ma ancor pià desidera che la sua vita sia dissolta per essere con
Cristo (Fil, 1, 23): questa è infatti la cosa migliore. Avanzate dunque sicuri,
cavalieri e con intrepido animo respingete i nemici della croce del Cristo!
(Fil, 3, 18). Siate sicuri che né la morte né la vita potranno separarvi
dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù. (Rm, 8, 38). E ripetete nel momento del
pericolo, ben a ragione: sia che viviamo sia che moriamo apparteniamo al
Signore. (Rm, 14, 8). Con quanta gloria tornano i vincitori dalla battaglia!
Quanto beati muoiono i martiri in combattimento! Rallegrati o forte campione se
vivi e vinci nel Signore: ma ancor più esulta e sii fiero nella tua gloria se
morirai e ti unirai al Signore. Per quanto la vita sia fruttuosa e la vittoria
gloriosa a giusto diritto ad entrambe è da anteporre la morte sacra. Se,
infatti, sono beati quelli che muoiono nel Signore (Ap, 14, 13), quanto più lo
saranno quelli che muoiono per il Signore?”
con
queste parole Saint-Bernard de Clairvaux apre la sua celebre De laude novae militiae. Composta tra il
1128 e il 1136, l’opera costituisce, come lo stesso autore dichiara nel
prologo, un “exhortatorius ad Milites
Templi”, una esortazione ai Cavalieri del Tempio, ovvero i TempIari,
divenuta con il tempo una sorta di Regola della Cavalleria.
È
necessario, innanzitutto, partire da elementi attestati, quali i verbali dei
procedimenti che coinvolsero i Templari. Le deposizioni e i vari resoconti
degli atti giudiziari descrivono il Baphomet
come un idolo – un busto o, più spesso, una testa – rappresentante un uomo
barbuto dallo sguardo acceso; in altre occasioni, se ne evidenzia il colore
rossastro della pelle e la lunga capigliatura [attributo, quest’ultimo,
notevolissimo per il periodo, poiché tratto marcatamente non virile]. Vi sono,
poi, le istruzioni che Filippo il Bello assegnò ai suoi balivi e siniscalchi
[coloro che avrebbero proceduto alla cattura dei Templari]; in queste il Re
francese definisce l’idolo “una testa
d’uomo con una lunga barba, la quale testa essi baciano e adorano a tutti i
loro Capitoli provinciali, ma ciò non è noto a tutti i fratelli, a eccezione
del Gran Maestro e degli anziani”. Le note di Philippe IV ai suoi
funzionari, dunque, testimonierebbero che il presunto culto blasfemo del
Bafometto non sarebbe stato collettivo all’interno dell’Ordine. Fondamentale, a
sostegno dell’accusa relativa all’adorazione del Baphomet, sarebbe stato il ritrovamento, nel corso del processo, di
un busto in legno e cuoio, raffigurante un uomo barbuto. Il simulacro – forse,
un reliquiario, poiché, al suo interno, stavano due frammenti di cranio umano –
fu rinvenuto proprio nella casa madre di Parigi e andò a costituire una prova
materiale per tutto l’iter
giudiziale, a supporto delle varie credenze e dicerie dei detrattori dei
Templari. Tali maldicenze, spesso interessate, sulle quali fu eretto il
castello accusatorio, insistevano sulla sodomia e, più in generale,
sull’omosessualità diffusa tra i confratelli – omosessualità alla quale veniva
attribuito un preciso carattere rituale eretico, in quanto le pratiche illecite
avevano luogo attorno all’idolo del Baphomet.
E, a questo proposito, non va dimenticata la connotazione androgina
dell’effigie, con i suoi capelli lunghi, chiaramente femminili.
Catherine de Courtenay, figlia di Philippe de Courtenay e Beatrice di Angiò,
nel 1301, sposò, a Saint-Cloud, Charles de Valois.
L’episodio fu cantato da Dante
Alighieri, nella sua Divina Commedia,
Purgatorio, XX, 85-90:
Perché men paia
il mal futuro e ‘l fatto,
Veggio in Alagna intrar lo fiordaliso,
E nel vicario suo Cristo esser catto.
Veggiolo un’altra volta esser deriso;
Veggio rinovellar l’aceto e ‘l fiele,
E tra vivi ladroni esser anciso.
Barbara Frale ha rinvenuto, agli inizi degli 2000, negli Archivi Vaticani, un
documento, noto come Pergamena di Chinon,
che dimostrerebbe come Papa Clemente V intendesse assolvere i Templari
dall’accusa di eresia, e limitarsi a sospendere l’Ordine piuttosto che
sopprimerlo, per assoggettarlo a una profonda riforma.
“Chinon, 1308 agosto 17-20
In nome di Dio amen. Noi per misericordia
divina Cardinali preti Berengario del titolo dei Santi Nereo e Achilleo, e
Stefano del titolo di San Ciriaco in Therminis, e Landolfo, Cardinale diacono
del titolo di Sant’Angelo, rendiamo noto a chiunque visionerà il presente e
pubblico documento quanto segue.
Dopo che, recentemente, il Santissimo Padre e
nostro Signore Clemente, per divina provvidenza Sommo Pontefice della
sacrosanta e universale Chiesa di Roma, a causa di quanto riportato dalla
pubblica voce e dalla accesa denuncia dell’illustre Re dei Franchi, e di
prelati, Duchi, Conti, Baroni e altri nobili e non nobili del medesimo Regno di
Francia fece istruire un’indagine contro alcuni frati, preti, cavalieri,
precettori e sergenti dell’Ordine della Milizia del Tempio relativa a quei
fatti che riguardano tanto i frati dell’Ordine quanto la fede cattolica e lo
stato dell’Ordine medesimo, e per i quali fatti essi sono stati pubblicamente
diffamati, lo stesso Pontefice, volendo e intendendo conoscere la pura, piena e
integra verità sugli alti dignitari del detto Ordine, cioè il frate Jacques de
Molay, Gran Maestro di tutto l’Ordine dei Templari, e i frati Raymbaud de
Caron, precettore d’Oltremare, e i precettori delle magioni templari Hugues de
Pérraud in Francia, Geoffroy de Gonneville in Aquitania e Poitou, Geoffroy de
Charny in Normandia, ordinò e incaricò noi, con mandato speciale e impartito
espressamente dall’oracolo della sua viva voce, affinché, accompagnati da notai
pubblici e testimoni degni di fede, ricercassimo con attenzione la verità nei
confronti del Gran Maestro e degli altri Precettori sopra nominati
interrogandoli rigorosamente uno a uno.
Noi dunque, conformemente all’Ordine e
all’incarico che ci sono stati impartiti dal predetto nostro Signore e Sommo
Pontefice, abbiamo indagato sui menzionati Gran Mestro e Precettori,
interrogando attentamente i medesimi sui fatti sopra esposti e, come segue qui
appresso, abbiamo fatto scrivere dai notai che si sono segnati in calce, e in
presenza dei testimoni sottoscritti, le cose dette dai medesimi Templari e le
loro confessioni, ordinando altresì che queste venissero redatte in pubblica
forma e che fossero rese ancora più valide dalla garanzia dei nostri sigilli.
Nell’anno millesimo trecentesimo ottavo dalla
nascita del Signore, nella sesta indizione, il giorno diciassettesimo del mese
di agosto e nell’anno terzo del Pontificato di nostro Signore Papa Clemente V,
nel Castello di Chinon, diocesi di Tours, il frate Raymbaud de Caron, Cavaliere
e Precettore d’Oltremare dell’Ordine dei Templari, costituitosi dinanzi a noi
cardinali sopradetti giurò sui Santi Vangeli di Dio, toccando il libro, di dire
la pura e piena verità tanto su di sé quanto su ogni singola persona e sui
frati dell’Ordine, nonché sull’Ordine stesso, in particolare su quei temi che
riguardano la fede cattolica e lo stato del detto Ordine, le altre persone
singole e i frati dell’Ordine stesso; interrogato attentamente da noi
sull’epoca e sulle modalità del suo ingresso nell’Ordine disse che, invero,
sono circa quarantatre anni che divenne Cavaliere, e che fu accolto nel Tempio
dal frate Roncelin de Fos, allora Pecettore della provincia di Provenza, nel
luogo di Richarenches, nella diocesi di Carpentras o di
Saint-Paul-Trois-Châteaux, nella cappella della magione templare di quel luogo.
E, in quella occasione, il precettore non gli disse null’altro che bene; ma
poco dopo la detta cerimonia di accoglienza sopraggiunse un certo frate
sergente di cui non ricorda il nome, poiché è morto da molto tempo. Questi lo
condusse in disparte portando una piccola croce sotto il mantello; dopo che gli
altri frati si furono allontanati, appena lo stesso sergente e il deponente
furono soli, il sergente gli mostrò una croce che, tuttavia, non ricorda se
contenesse o meno l’immagine del Crocefisso, crede comunque che vi fosse,
dipinta o scolpita. E quel frate gli disse: “Conviene che tu rinneghi questo.”
E il deponente, non credendo di peccare, disse: “E io lo rinnego.” Allo stesso
modo il sergente gli disse poi di mantenere la continenza ovvero la castità;
tuttavia, qualora non vi fosse riuscito, sarebbe stato meglio che lo avesse
fatto in segreto piuttosto che in pubblico. Disse, inoltre, che quel
rinnegamento che fece, lo aveva fatto non con convinzione, ma a parole. Disse
poi che il giorno successivo lo aveva rivelato al Vescovo di Carpentras, suo
parente che si trovava in quel luogo, il quale gli disse che aveva agito male e
che aveva peccato: per la qual cosa si confessò allo stesso Vescovo che gli
ingiunse una penitenza che, a quanto ci ha detto, fece. Interrogato poi sul
vizio di sodomia disse di non averlo mai praticato, in maniera né attiva né
passiva, né sentì dire mai che i Templari praticassero quel vizio, tranne che
tre soli tra essi, i quali, per quel vizio, erano stati condannati al carcere a
vita nel Castello di Château-Pélerin. Interrogato se i frati vengano accolti
nell’Ordine nello stesso modo in cui fu accolto egli stesso, disse di non
saperlo, dal momento che non accolse né vide mai accogliere nessuno, tranne che
due o tre frati, dei quali non sapeva se avessero negato il Cristo o meno.
Interrogato sui nomi di questi frati accolti disse di uno il cui nome era frate
Pietro, del quale non sa il cognome. Interrogato su che età avesse quando
divenne frate nell’Ordine, disse che aveva circa diciassette anni. Interrogato
relativamente allo sputo sulla croce e sull’idolo a forma di testa disse di non
saperne nulla, aggiungendo che mai aveva sentito dire di questa testa finché
non lo udì dire da nostro Signore Papa Clemente nell’anno testé trascorso.
Interrogato sul bacio disse che frate Roncelin, quando lo aveva accolto come
frate, lo aveva baciato sulla bocca; di altri baci disse di non saperne nulla.
Interrogato se volesse rimaner fermo su questa sua confessione, se avesse detto
la verità, e se vi avesse mescolato qualcosa di falso o avesse tralasciato
qualcosa di vero, disse di volersi mantener fermo nella sua confessione ora
rilasciata e di aver detto la verità, e che in quella non aveva mescolato
alcunché di falso, né omesso verità alcuna. Interrogato se avesse confessato le
cose appena dette su richiesta, per denaro, gratitudine, simpatia, paura o odio
o istigazione di qualcuno ovvero per paura della tortura, disse di no.
Interrogato se dopo che fu arrestato gli fossero state poste domande o fosse
stato torturato disse di no. E, infine, lo stesso frate Raymbaud,
inginocchiatosi e giunte le mani chiese dinanzi a noi il perdono e la
misericordia per i fatti rivelati; e poiché era lo stesso frate Raymbaud a
chiedere queste cose, abiurò nelle nostre mani la ora rivelata e ogni altra eresia
e, per la seconda volta, toccando il libro, giurò sui santi Vangeli di Dio che
egli stesso avrebbe obbedito ai precetti della Chiesa e avrebbe tenuto, creduto
e osservato la fede cattolica che la Santa Romana Chiesa tiene, osserva,
predica e insegna e ordina che sia osservata dagli altri, e che sarebbe vissuto
e morto da fedele cristiano. Dopo tale giuramento noi Cardinali, in virtù
dell’autorità specialmente concessaci dal Papa in questo luogo, abbiamo
impartito allo stesso frate Raymbaud, che umilmente la chiedeva, il beneficio
dell’assoluzione dalla sentenza di scomunica nella quale, per le cose prima
rivelate, era incorso, riammettendolo nell’unità della Chiesa e restituendolo
alla comunione dei fedeli e ai sacramenti ecclesiastici.
Allo stesso modo, lo stesso giorno, nel modo e
nella forma predetti, costituitosi di persona, in presenza di noi e degli
stessi notai e testimoni, il frate Geoffroy de Charny, Cavaliere, Precettore
delle magioni del Tempio in tutta la Normandia, giurò in modo simile sui santi
Vangeli di Dio, toccando il libro; attentamente interrogato sulle modalità del
suo ingresso nell’Ordine disse che sono circa quarant’anni che fu accolto nella
Milizia del Tempio dal frate Amaury de la Roche, Precettore di Francia, presso
Étampes, nella diocesi di Sens, nella cappella della magione templare di quel
luogo, presenti il frate Jean le Franceys, Precettore del Pédenac e circa nove
o dieci confratelli che ora, a quanto crede, sono morti. E, in quell’occasione,
terminato il rito d’ingresso, postogli sul collo il mantello dell’Ordine, il
frate che lo aveva accolto lo trasse in disparte all’interno della cappella
stessa e gli mostrò una croce sulla quale vi era l’immagine del Cristo: e gli
disse di non credere in quello, anzi, di rinnegarlo. E allora, per ordine di
quello, lo negò a parole ma senza convinzione. Disse anche che nel momento
della sua accoglienza aveva baciato quel frate sulla bocca, sul petto, e sopra
la veste, in segno di rispetto. Interrogato se i frati templari fossero accolti
nell’Ordine nello stesso modo in cui egli stesso era stato accolto disse di non
saperlo. Disse anche di aver accolto personalmente nell’Ordine un solo frate,
secondo quella prassi per la quale egli stesso era stato accolto, e che in
seguito accolse molti altri senza imporre loro il predetto rinnegamento e in
modo corretto; disse anche che, per il rinnegamento del Crocefisso che egli
stesso aveva subito durante la sua accoglienza e imposto in quella che fece
fare, si confessò con l’allora Patriarca di Gerusalemme, e venne assolto da
quello. Interrogato attentamente riguardo allo sputo sulla croce, ai baci e al
vizio di sodomia e all’idolo a forma di testa, disse di non saperne nulla.
Interrogato disse, inoltre, di credere che gli altri frati vengano accolti nell’Ordine
nel modo in cui egli stesso vi fu accolto; disse, tuttavia, di non saperlo per
certo, poiché quando avvengono tali cerimonie d’ingresso, gli accoliti vengono
tratti in disparte in modo tale che gli altri fratelli che sono nella medesima
magione non vedano né ascoltino cosa si faccia con essi in quell’occasione.
Interrogato su che età avesse quando fece ingresso nell’Ordine, disse di avere
avuto circa diciassette anni. Interrogato se avesse confessato le cose appena
dette su richiesta, per denaro, gratitudine, simpatia, paura, odio o
istigazione di qualcuno ovvero per paura della tortura, disse di no.
Interrogato se volesse rimaner fermo su questa sua confessione, e se avesse
detto la verità e se vi avesse mescolato qualcosa di falso ovvero se avesse tralasciato
qualcosa di vero, disse che voleva rimaner fermo nella sua confessione appena
detta, nella quale aveva detto ogni cosa per vera, e di aver detto la verità, e
che in quella non aveva mescolato alcunché di falso, né omesso verità alcuna.
Dopo ciò noi cardinali, secondo le modalità e le forme sopra scritte, ritenemmo
che al medesimo frate Geoffroy, che nelle nostre mani abiurava quella appena
rivelata e ogni altra eresia, e che giurava sui Santi Vangeli di Dio
richiedendo umilmente anche il beneficio dell’assoluzione per questi fatti,
fosse da impartire il beneficio dell’assoluzione secondo le forme della Chiesa,
riaccogliendolo nell’unità della Chiesa e restituendolo alla comunione dei
fedeli e ai sacramenti ecclesiastici.
Allo stesso modo, lo stesso giorno,
costituitosi di persona, in presenza di noi, dei notai e dei testimoni
sottoscritti il frate Geoffroy de Gonneville, attentamente interrogato
sull’epoca e sulle modalità della sua accoglienza e sulle altre cose sopra
menzionate, disse che sono circa ventotto anni che fu accolto come frate
nell’Ordine dei Templari da Robert de Torville, Cavaliere e Precettore delle
magioni templari in Inghilterra, presso Londra, nella cappella della casa
templare di quella città. E in quell’occasione, il Templare che lo accolse,
dopo avergli consegnato il mantello dell’Ordine, gli mostrò una croce dipinta
su un certo libro e gli disse che era necessario che rinnegasse l’immagine di
colui che vi era raffigurato; e siccome l’accolito non volle farlo, il
precettore insistette assai che lo facesse. Poiché non voleva farlo in nessun
modo, il templare, vedendo la sua resistenza, gli disse: “Mi vuoi giurare che,
se io ti risparmierò dal farlo, dirai comunque di aver fatto questo
rinnegamento se i confratelli te lo chiederanno?” Ed egli disse di sì, e
promise che, qualora, fosse stato interrogato da chiunque dei confratelli,
avrebbe detto di aver compiuto il rinnegamento; pertanto, a quanto ci ha detto,
non negò nient’altro. Il Templare che lo accoglieva gli disse anche che era
necessario sputare sopra la croce prima mostrata; e poiché egli non voleva
farlo, il Templare posò la mano sopra la croce e gli disse: “Sputa, almeno,
sulla mia mano!”. Temendo che il Templare togliesse la mano e parte dello sputo
potesse cadere sopra la croce, non volle sputare sopra la mano, ma in terra,
vicino la croce. Interrogato attentamente sul vizio di sodomia, sull’idolo a
forma di testa, sui baci e altri fatti sui quali i Templari sono diffamati
disse di non saperne nulla. Interrogato se altri frati dell’Ordine, sono
accolti nello stesso modo in cui egli stesso fu accolto, disse di credere che,
come avvenne a lui in occasione del suo ingresso già ricordato, così avvenga
anche per gli altri. Interrogato se avesse confessato le cose appena dette su
richiesta, per denaro, gratitudine, simpatia, paura o odio o istigazione di
qualcuno ovvero forzatamente o per paura della tortura, disse di no. Dopo ciò
noi Cardinali, secondo le modalità e le forme sopra scritte, ritenemmo che al
medesimo frate Geoffroy de Gonneville, che nelle nostre mani abiurava la ora
rivelata e ogni altra eresia e che giurava sui Santi Vangeli di Dio,
richiedendo umilmente anche il beneficio dell’assoluzione per questi fatti,
fosse da impartire il beneficio dell’assoluzione secondo le forme della Chiesa,
riaccogliendo egli stesso nell’unità della Chiesa e restituendolo alla
comunione dei fedeli e ai sacramenti ecclesiastici.
Allo stesso modo, il giorno diciannove del
corrente mese, costituitosi personalmente in presenza di noi e dei medesimi
notai e testimoni Hugues de Pérraud, Cavaliere, Precettore delle magioni del
Tempio in Francia, toccando il libro, giurò sui Santi Vangeli di Dio nel modo e
nella forma predetti. E il predetto frate Hugues, dopo che, come si è già
detto, ebbe giurato, interrogato sul modo del suo ingresso nell’Ordine, disse
di essere stato accolto in Lione, nella casa templare di quella città, nella
cappella della medesima magione, passati già quarantasei anni più o meno, il
giorno della festa della Maddalena prossimo passato; e lo accolse come frate
dell’Ordine il frate Hubert de Pérraud, Cavaliere Templare e suo zio paterno,
Visitatore delle magioni dell’Ordine in Francia e nel Poitou. Questi gli posò
il mantello dell’Ordine sul collo; fatto ciò, un altro confratello di nome
Giovanni, che poi fu Precettore di La Muce, lo prese da parte nella cappella, e
mostratagli una certa croce nella quale era dipinta l’immagine del Crocefisso,
gli ordinò di rinnegare l’immagine di colui che vi era rappresentato: questi, a
quanto ci ha detto, per quanto poté, si oppose. Nondimeno, alla fine, atterrito
dalle intimidazioni e dalle minacce di quel frate Giovanni, rinnegò l’immagine
dipinta, ma una sola volta. Tuttavia, seppure il detto frate Giovanni gli
avesse ordinato più e più volte di sputare sopra la detta croce, non volle
farlo. Interrogato se avesse baciato il templare che lo aveva accolto disse di
sì, ma solo sulla bocca. Interrogato sul vizio di sodomia disse che non gli fu
mai imposto, né mai lo commise. Interrogato se avesse ricevuto alcuni
nell’Ordine disse di sì: molte persone e in molti casi, più di qualsiasi altro
Templare ancora in vita nell’Ordine. Interrogato sul modo con cui accolse altri
disse che, dopo la cerimonia d’ingresso, consegnati i mantelli, imponeva a ciascuno
degli accolti che negassero il Crocefisso e che baciassero lui sul fondo
schiena, sull’ombelico e, in seguito, sulla bocca. Disse anche che li ammoniva
di astenersi dai rapporti sessuali con le donne; e qualora non avessero potuto
contenere il desiderio, di unirsi con i propri confratelli. Per suo giuramento
disse anche che il rinnegamento che fece quando fu accolto nell’Ordine e le
altre prescrizioni che impose a quelli che furono accolti da lui, le aveva
fatte soltanto a parole e senza intenzione. Interrogato perché mai lo avesse
fatto e perché mai se ne dolesse, dal momento che lo faceva senza intenzione,
rispose che così prescrivevano gli statuti ossia le consuetudini dell’Ordine: e
da sempre aveva sperato che quell’errore venisse rimosso. Interrogato se
qualcuno tra gli accoliti si rifiutasse di sputare o fare le altre riprovevoli
azioni da lui stesso menzionate poco prima, disse che in pochi si rifiutavano:
ma alla fine lo facevano tutti. Disse anche che per quanto egli stesso
imponesse ai frati che accoglieva nell’Ordine di unirsi sessualmente tra
confratelli [se proprio non riuscivano ad astenersi da rapporti con donne], mai
tuttavia gli accadde di farlo, né udì mai di qualcuno che avesse commesso quel
peccato, tranne che di due o tre frati che in Terra d’Oltremare, per quel
vizio, erano stati incarcerati nella fortezza di Château-Pélerin. Interrogato
se sappia o meno se tutti i frati dell’Ordine siano ricevuti nel modo il cui
egli stesso accolse gli altri, disse di non saperlo per certo, tranne che per
se stesso e per quelli che aveva accolto personalmente, poiché i Templari
vengono accolti nell’Ordine secondo una procedura talmente segreta che nulla si
può sapere, se non attraverso quelli che sono presenti alla cerimonia
d’ingresso. Interrogato se creda che gli accolti siano ricevuti in tal modo
disse di credere che quella stessa prassi sia ancora mantenuta per accogliere
altri, così come fu praticata per accogliere lui, e che egli stesso aveva
osservato per quelli che aveva accolto. Interrogato sull’idolo a forma di
testa, che si dice sia adorato dai Templari, disse che lo vide, mostratogli a
Montpéllier dal frate Pierre Allemandin, Precettore di quel luogo; e quella
testa rimase a frate Pierre. Interrogato su che età avesse quando fu accolto nell’Ordine
disse che sentì dire da sua madre di avere avuto diciotto anni. Disse anche che
già un’altra volta aveva confessato questi fatti, in presenza del frate
inquisitore Guillaime de Paris o di un suo commissario; e che quella
confessione era stata scritta per mano dello stesso Maestro che qui si
sottoscrive, Amise d’Orléans, e di certi altri notai pubblici. E si attiene a
quella confessione come vera, e in quella, e in tutto ciò che in questa
concorda con quella, vuole rimaner fermo; e se nella medesima sua confessione
fatta, come già detto, dinanzi all’Inquisitore o al suo commissario, vi sia
qualcosa in più, lo ratifica, lo approva e lo conferma. Interrogato se abbia
confessato le cose appena dette su richiesta, per denaro, gratitudine,
simpatia, paura o odio o istigazione di qualcuno ovvero per paura della
tortura, disse di no. Interrogato se dopo che fu arrestato gli fossero state
poste domande o fosse stato torturato disse di no. Dopo ciò noi Cardinali,
secondo le modalità e le forme sopra scritte, ritenemmo che al medesimo frate
Hugues, che nelle nostre mani abiurava la ora rivelata e ogni altra eresia e
che giurava sui Santi Vangeli di Dio, richiedendo umilmente anche il beneficio
dell’assoluzione per questi fatti, fosse da impartire il beneficio dell’assoluzione
secondo le forme della Chiesa, riaccogliendo egli stesso nell’unità della
Chiesa e restituendolo alla comunione dei fedeli e ai sacramenti ecclesiastici.
Allo stesso modo, il venti del corrente mese,
in presenza di noi e dei medesimi notai e testimoni, costituitosi di persona il
frate Jacques de Molay, cavaliere e Gran Maestro dell’Ordine del Tempio, dopo
che ebbe giurato, attentamente interrogato sulla forma e le modalità sopra
riportate, disse che sono passati circa quarantadue anni dacché presso Beune,
nella diocesi di Autun, fu accolto come frate dell’Ordine, per mezzo del
Cavaliere Templare Hubert de Pérraud, allora Visitatore di Francia e Poitou,
nella cappella della magione di quel luogo. E sulle modalità del suo ingresso
nell’Ordine disse che quello che lo aveva accolto, prima di allacciargli il
mantello, gli mostrò una certa croce, gli disse di rinnegare Dio la cui
immagine era dipinta sulla croce stessa, e di sputarvi sopra: cosa che egli
fece; e tuttavia non sputò sulla croce, ma per terra, a quanto disse. Disse
inoltre che quel rinnegamento lo fece a parole, senza intenzione. Interrogato
attentamente sul vizio di sodomia, sull’idolo a forma di testa e sui baci
immorali disse di non saperne nulla. Interrogato se avesse confessato le cose
appena dette su richiesta, per denaro, gratitudine, simpatia, paura o odio o
istigazione di qualcuno ovvero per paura della tortura, disse di no.
Interrogato se dopo che fu arrestato gli fossero state poste domande o fosse
stato torturato disse di no. Dopo ciò noi Cardinali, secondo le modalità e le
forme sopra scritte, ritenemmo che al medesimo frate Jacques, Gran Maestro
dell’Ordine, che nelle nostre mani abiurava la ora rivelata e ogni altra eresia
e che giurava sui Santi Vangeli di Dio richiedendo umilmente anche il beneficio
dell’assoluzione per questi fatti, fosse da impartire il beneficio
dell’assoluzione secondo le forme della Chiesa, riaccogliendo egli stesso
nell’unità della Chiesa e restituendolo alla comunione dei fedeli e ai
sacramenti ecclesiastici.
Nello stesso giorno 20 il già menzionato frate
Geoffroy de Gonneville, costituitosi alla presenza di noi e dei medesimi notai
e testimoni, ha ratificato, approvato e confermato spontaneamente e liberamente
la sua confessione sopra riportata, lettagli pubblicamente nella sua lingua,
dichiarando che intende rimaner fermo tanto in questa confessione quanto anche
in quella che già un’altra volta ha dichiarato, su questi fatti, dinanzi
all’Inquisitore o agli Inquisitori, dal momento che concorda con la detta
confessione fatta dinanzi a noi e ai notai e ai testi ricordati, e che intende
attenersi ad entrambe le confessioni; e se nella medesima confessione fatta,
come è stato detto, dinanzi all’Inquisitore o agli Inquisitori, vi sia qualcosa
in più, lo ratifica, lo approva e lo conferma.
Nel predetto giorno 20 il già menzionato frate
Precettore Hugues de Pérraud, costituitosi in presenza di noi e dei medesimi
notai e testimoni, in modo e forma analoghi, spontaneamente e liberamente ha
ratificato, approvato e confermato la sua confessione sopra riportata lettagli
pubblicamente nella sua lingua. A testimonianza di tutto questo, abbiamo
ordinato che le confessioni e tutti i singoli fatti sopra riportati, dinanzi a
noi e agli stessi notai e testimoni e da noi stessi resi come qui sopra sono
contenuti, vengano scritti e, una volta redatti in pubblica forma da Robert de
Condet, chierico della diocesi di Soissons e notaio per autorità apostolica,
che fu presente insieme a noi e ai notai e testi sotto indicati, siano munite
con il peso dei nostri sigilli.
Questi fatti si svolsero nell’anno,
nell’indizione, nel mese, nei giorni, nel Pontificato e nel luogo sopra
ricordati, in presenza di noi, presenti i notai pubblici per autorità
apostolica Umberto Vercellani, Nicolò Nicolai di Benevento, il ricordato Robert
de Condet e il Maestro Amise de Orléans detto le Ratif, e i testimoni appositamente convocati per
questo: il religioso frate Raimondo, abate del Monastero di San Teoffredo
dell’Ordine di San Benedetto nella diocesi di Annecy, e gli avveduti signori
Bernardo da Boiano, arcidiacono di Troia, Raoul de Boset, penitenziere e
canonico di Parigi, e Pierre de Soire, custode della chiesa di Saint-Gaugéry
nella diocesi di Cambrésis.
E io il medesimo Robert de Condet, chierico
della diocesi di Soissons, notaio pubblico per autorità apostolica, ho
assistito a tutti i singoli fatti sopra riportati in presenza dei reverendi
padri e già ricordati signori Cardinali, di me, e degli altri medesimi notai e
testimoni, presente per grazia degli stessi Cardinali insieme ai ricordati
notai e testimoni, e dietro ordine degli stessi signori Cardinali scrissi il
presente strumento pubblico e, su richiesta, lo ho redatto in pubblica forma
apponendovi il mio segno notarile.
E io sopra ricordato Umberto Vercellani,
chierico di Béziers, notaio pubblico per autorità apostolica ho assistito alle
confessioni e a tutti i singoli fatti sopra riportati in presenza dei signori
Cardinali predetti e come sopra più ampiamente è riportato, presente per grazia
di questi insieme ai notai e ai testimoni sopra menzionati e dietro ordine
degli stessi signori Cardinali, a maggiore garanzia mi sono sottoscritto in
questo strumento pubblico e lo ho autenticato con il mio segno notarile.
E io Nicolò Nicolai di Benevento, notaio
pubblico per autorità apostolica sopra nominato, ho assistito alle confessioni
e a tutti i singoli altri fatti sopra riportati in presenza dei signori
Cardinali predetti e come sopra più diffusamente è riportato, presente per
grazia di questi insieme ai notai e ai testimoni sopra menzionati e dietro
ordine degli stessi signori Cardinali, a maggiore garanzia mi sono sottoscritto
in questo strumento pubblico e lo ho autenticato con il mio segno notarile
(ST).
E io Amise de Orléans detto le Ratif, chierico e notaio pubblico per l’autorità
della sacrosanta Chiesa di Roma ho assistito alle confessioni ovvero
deposizioni e a tutti gli altri singoli fatti in presenza dei padri e signori
Cardinali predetti e come sopra è più diffusamente contenuto, fui presente
insieme ai notai e testimoni sopra menzionati e dietro ordine degli stessi
signori Cardinali a testimonianza di verità mi sono sottoscritto, su richiesta,
in questo strumento pubblico e lo ho autenticato con il mio segno notarile.”
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