“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

lunedì 25 gennaio 2016

SOCIETA' SEGRETE II. LA MAFIA 3. LA QUADRUPLICE INTESA ROMA CAPUT IMMONDUM A. LA BANCA ROMANA di Daniela Zini



“He who controls the past controls the future.

He who controls the present controls the past.”

George Orwell, 1984
SOCIETA’ SEGRETE
 “In politics, nothing happens by accident. If it happens, you can bet it was planned that way.”
Franklin D. Roosevelt

Al Signor Luigino D’Angelo
e a tutte le Vittime del decreto salva-banche
La gravità del tracollo economico che si prospetta, oggi, trova precedenti nella Storia [http://danielazini.blogspot.it/2012/05/e-se-il-quadro-della-crisi-economica.html]?
Certamente, il crack delle grandi case bancarie fiorentine dei Bardi e dei Peruzzi, reputato il più grande disastro finanziario storico ai nostri giorni, presenta analogie con la crisi di questi ultimi anni. Oggi come allora, queste bancarotte sono la conseguenza di bolle finanziarie speculative che crescono paralizzando produzione e commercio: l’ECONOMIA REALE.
Tra il 1343 e il 1346, i Bardi e i Peruzzi[1], schiacciati,  rispettivamente, da un debito di 900mila e 600mila fiorini d’oro, furono travolti da un’ambigua storia di mutui subprimes [https://www.youtube.com/watch?v=hUAs-SAwAno], come diremmo oggi. Sette secoli fa, questo termine non esisteva, ma esisteva ed era ben attivo un certo capitalismo di assalto, che aveva concesso ingenti prestiti ad altissimo rischio senza troppo preoccuparsi delle conseguenze: si trattava di speculazioni simili a quelle sui subprimes dell’attuale crisi.
Al suo paragone, la Grande Depressione degli anni 1930 fu un episodio transitorio e di scarse conseguenze.
Firenze era considerata, allora, la vera e propria Banca Centrale Europea.
Oggi, il rischio è di una riedizione dello stesso fenomeno in cui, come si legge nelle cronache dell’epoca, “tutto il credito scomparve nello stesso momento”[2].
Le conseguenze, che ricalcano, fedelmente, quelle odierne, furono deflagranti e il “contagio” irrefrenabile.
Il fallimento delle due banche maggiori causò, infatti, l’insolvenza dei debitori e numerosi fallimenti nel sistema finanziario.
Crollò in parallelo, anche, il mercato immobiliare.
I documenti dell’epoca offrono una lista di 350 fiorentini finiti sul lastrico, ma il numero reale  fu certamente maggiore.
Il cronista Giovanni Villani [1276-1348], socio dei Peruzzi, coinvolto suo malgrado nel crack ante litteram, scrive a tale proposito nella Nuova Cronica:

“Nel detto anno, del mese di gennaio, fallirono quelli della compagnia de’ Bardi, i quali erano stati i maggiori mercatanti d’Italia. E·lla cagione fu ch’ellino avieno messo, come feciono i Peruzzi, il loro e l’altrui nel re Aduardo d’Inghilterra e in quello di Cicilia; che·ssi trovarono i Bardi dal re d’Inghilterra dovere avere, tra di capitale e di riguardi e doni impromessi per lui, DCCCCm di fiorini d’oro, e per la sua guerra col re di Francia no·lli potea pagare; e da quello di Cicilia da Cm di fiorini d’oro. È Peruzzi da quello d’Inghilterra da DCm di fiorini d’oro e da quello di Cicilia da Cm fiorini d’oro, e debito da CCCm di fiorini d’oro; onde convenne che fallissono a’ cittadini e forestieri, a cui dovieno dare più di DLm di fiorini d’oro, solo i Bardi. Onde molte altre compagnie minori, e singulari, ch’avieno il loro ne’ Bardi e·nne’ Peruzzi e negli altri falliti, ne rimasono diserti, e tali per questa cagione ne fallirono. Per lo quale fallimento di Bardi, e Peruzzi, Acciaiuoli, Bonaccorsi, di Cocchi, d’Antellesi, Corsini, que’ da Uzzano, Perondoli, e più altre piccole compagnie e singulari artefici che falliro in questi tempi e prima, per gl’incarichi del Comune e per le disordinate prestanze fatte a’ signori, onde adietro è fatta menzione, ma però non di tutti, che troppo sono a contare, fu alla nostra città di Firenze maggiore rovina e sconfitta, che nulla che mai avesse il nostro Comune, se considerrai, lettore, il dannaggio di tanta perdita di tesoro e pecunia perduta per li nostri cittadini, e messa per avarizia ne’ signori. O maladetta e bramosa lupa, piena del vizio dell’avarizia regnante ne’ nostri ciechi e matti cittadini fiorentini, che per cuvidigia di guadagnare da’ signori mettere il loro e·ll’altrui pecunia i·lloro potenza e signoria, a perdere, e disolare di potenza la nostra republica! che non rimase quasi sustanzia di pecunia ne’ nostri cittadini, se non inn alquanti artefici o prestatori, i quali colla loro usura consumano e raunano a·lloro la sparta povertà di nostri cittadini e distrettuali. Ma non sanza cagioni vengono a’ Comuni e a’ cittadini gli occulti giudici di Dio per pulire i peccati commessi, siccome Cristo di sua bocca vangelizzando disse: “In peccata vestra moriemini etc.”. I Bardi renderono per patto i·lloro possessioni a’ loro creditori soldi VIIII danari III per libra, che non tornarono a giusto mercato soldi VI per libra. È Peruzzi patteggiarono a soldi IIII per libra in posessioni, e soldi XVI per libra nelle dette di sopradetti signori; e se riavessono quello deono avere dal re d’Inghilterra e da quello di Cicilia, o parte, rimarrebbono signori di gran potenzia di ricchezza; e’ miseri creditori diserti e poveri, perché fallì credenze e·lle malvagie aguaglianze delli ordini e riformagioni del nostro corrotto reggimento del Comune, che chi ha podere più ha a suo senno i dicreti del Comune.
E questo basti, e forse ch’è troppo avere detto sopra questa vergognosa matera; ma non si dee tacere il vero per chi ha a·ffare memoria delle cose notabili ch’ocorrono, per dare asempro a quelli che sono a venire di migliore guardia. Con tutto noi ci scusiamo, che in parte per lo detto caso tocchi a·nnoi autore, onde ci grava e pesa; ma tutto aviene per la fallabile fortuna delle cose temporali di questo misero mondo.”

Come dire, posteri avvisati, mezzo salvati!
Ma, come si vede, la Storia si ripete sempre...
Gli storici sono soliti attribuire questo immane disastro, causato dalle banche e dal loro sistema finanziario, a un capro espiatorio, re Edoardo III d’Inghilterra, straziato dalla sua brama di guerra e dalla sua bramosia di conquista.
Fare la guerra era un affare costosissimo.
Allora come ora!
E i banchieri erano ben lieti di prestare danaro ai Sovrani, in genere, solvibili, dai quali si facevano assegnare, in cambio, rendite ricchissime: le dogane, lo sfruttamento del sale e quant’altro.
Allora come ora!
Ma Edoardo III si ribellò al sistema finanziario, con il quale i banchieri fiorentini stavano acquisendo il controllo sul suo Paese, e, a partire dal 1342, sospese i pagamenti ai Bardi e ai Peruzzi.
Fu questo fatto a far precipitare nel fallimento le due famiglie, anche perché gran parte delle somme date in prestito al re erano risparmi affidati in amministrazione fiduciaria dai correntisti, i quali pretendevano la restituzione dei capitali, con interessi altissimi.
Il re di Napoli, Roberto d’Angiò il Saggio, allarmato da questa mossa inaspettata, ritirò i suoi depositi presso le banche fiorentine, innescando una vera e propria corsa al prelievo. Come se non bastasse, venne dichiarata la trasferibilità dei titoli di debito pubblico, che ne fece crollare il valore.
I primi a cadere furono i Peruzzi nel 1343. Dichiararono l’insolvenza e patteggiarono con i creditori. 
I Bardi si ritrovarono nella stessa situazione, nel giro di poco tempo. 
Questa vicenda, che può essere considerata la prima crisi dei mutui della Storia, vide la morte sul rogo di due funzionari della Zecca e l’inizio di una depressione economica senza precedenti: i traffici commerciali di qualsiasi tipo furono distrutti e il mercato entrò in confusione.
Nella mostra Denaro e Bellezza, che, il 17 settembre 2011, si è aperta a Palazzo Strozzi, i capolavori di Botticelli, del Beato Angelico, di Piero del Pollaiolo, di Lorenzo di Credi hanno illustrato come il fiorire del moderno sistema bancario sia stato parallelo alla maggiore stagione artistica del mondo occidentale, collegando quell’intrecciarsi di vicende economiche e artistiche agli sconvolgenti mutamenti religiosi e politici dell’epoca.
Un viaggio alla radice del potere fiorentino in Europa, ma anche una analisi di quei meccanismi economici che – mezzo millennio prima degli attuali mezzi di comunicazione – hanno permesso ai fiorentini di dominare il mondo degli scambi commerciali e, di conseguenza, di finanziare il Rinascimento.
Lorenzo il Magnifico fu uno scadente gestore dei beni di famiglia, ma ci legò lo splendore del Rinascimento italiano!
Che ci legheranno, oggi, i banchieri che ci hanno inflitto la terribile crisi economica che subiamo attualmente?
Il processo di modernizzazione politica deve procedere di pari passo con il processo di modernizzazione economica. La corruzione venuta alla luce nelle imprese pubbliche rappresenta solo uno degli aspetti più estremi di una struttura organizzativa aziendale confusa. Chi dirige le imprese pubbliche deve, spesso, servire gli interessi politici, che ne hanno deciso la nomina e non gli interessi delle società di cui si è assunto la responsabilità, questo all’unico scopo di mantenere la propria poltrona.
Con questo sistema è inevitabile che a una distorsione ne segua un’altra.
Su un piano nazionale ciò si somma al fatto che, in Italia, esistono due grandi correnti ideologiche che non hanno mai realmente accettato il principio del libero mercato, fattore di successo essenziale per le società occidentali. Da una parte vi sono i numerosi politici dell’area cattolica che credono più nella solidarietà che nel liberismo moderno. Dall’altra gli ex-comunisti che credono più nella pianificazione che nelle forze di mercato. Assieme queste due forze rappresentano più della metà dell’intero vecchio sistema politico italiano. Avrebbero fatto meglio a leggere e a seguire Adam Smith:
Per Smith, il complemento necessario alla libertà politica risiede nelle istituzioni sociali, istituzioni che furono strutturate in modo da indurre gli uomini, dominati dai loro appetiti e dalle loro passioni, a porre dei limiti a quelle stesse passioni e a quegli stessi appetiti.[3]     
Il vincitore del Premio Nobel per l’Economia Franco Modigliani, nel 1985, [1918- 2003] scrisse nella primavera del 1993:
“Il 1993 è per l’Italia l’anno delle grandi opportunità. Si sta verificando una rara coincidenza di circostanze che offre all’Italia la possibilità di sanare i quattro mali che affliggono la sua economia : una inflazione elevata, la disoccupazione, uno spaventoso deficit pubblico e lo squilibrio della bilancia commerciale con l’estero.[4]
Nel 1992, nonostante la recessione mondiale, l’esplosione di tutti gli scandali italiani e le stragi di Capaci e di via D’Amelio, il PIL aveva continuato a crescere.
E il 1993 è stato, sicuramente, un punto di svolta… ma questa previsione si è rivelata eccessivamente ottimistica.
Se un Paese così mal governato, riusciva a stare al passo con l’Unione Europea, poteva solo sperare in risultati ancora migliori dopo che il Governo e la classe dirigente sarebbero stati rinnovati!
Gli sviluppi politici ed economici sono, in effetti, intrecciati. Quando vi è un controllo economico sul sistema politico, ciò produce situazioni pericolose.
Il settore economico deve, tuttavia, farsi sentire in modo più fermo e razionale, intervenendo responsabilmente, affinché i politici legiferino per promuovere una maggiore efficienza.
Spazzare via il vecchio crea inevitabilmente un vuoto.
Questo non necessariamente verrà colmato da prodotti nuovi e perfetti, come sembra delinearsi in politica.
Tutti coloro che si sono presentati sulla scena per sostituirsi alla vecchia classe politica e ai vecchi partiti non hanno, mai, avanzato un piano concreto per risanare i mali del Paese.
Quando un imprenditore lancia un nuovo progetto, conduce uno studio comprensivo di tutti i suoi aspetti.
Nella campagna elettorale per le politiche del 1994, il vuoto venne, parzialmente, colmato dalle tecniche di comunicazione e di immagine, che costituiscono solo un aspetto del progetto globale.
I contenuti del programma – ce si presume siano la parte più importante – furono per lo più assenti.
Il cammino verso lo sviluppo dell’Italia è destinato a essere molto lungo, ma NON senza speranza.

Roma, 25 gennaio 2016

Daniela Zini
 

L’autore tiene a ringraziare le persone che lo hanno incoraggiato a intraprendere la sua inchiesta.
In particolare, Lazzaro DIA, per gli ammaestramenti, che non ha, mai, mancato di prodigarmi graziosamente, e per gli ammonimenti, che non ha, mai, mancato di prodigarmi meno graziosamente.
Il mio uomo, come lo definirebbe John Le Carré, ha preso non poche precauzioni allo scopo di non dover confidare, unicamente, sulla mia discrezione per proteggersi da indebite ricerche sulla sua persona e non mi ha permesso di sapere su di lui più di quanto mi servisse per convincermi a portare a termine la stesura del mio reportage.
Per le stesse ragioni, non posso rendere nota l’identità di altre 6 persone, che, mi limiterò a indicare con le lettere J, K, W, X, Y e Z, che non sono, naturalmente, le iniziali dei loro nomi.
Sono loro debitrice.
Dal momento che questo reportage solleverà, senza commenti, questioni in merito alle quali le opinioni non sempre coincidono, ritengo sia giusto rendere nota al lettore la mia posizione personale.
Come la maggior parte degli individui, disapprovo il terrorismo a scopi politici. Inoltre non credo nella cinica concezione, secondo cui chi per qualcuno è un terrorista, par altri è un combattente per la Libertà.
I terroristi non si definiscono in base ai loro obiettivi politici, ma ai mezzi che utilizzano.
In pari tempo, non mi sento di sottoscrivere il diffuso errore secondo cui il terrorismo è privo di qualsiasi efficacia.
A mio parere, una ipotesi del genere è solo un pio desiderio.
Se il terrorismo, spesso, non riesce a conseguire gli obiettivi desiderati, lo stesso vale per la guerra convenzionale, la diplomazia o qualsiasi altro evento politico.
Alla stessa stregua, si potrebbe ipotizzare che anche la guerra e la diplomazia siano prive di efficacia!
È mia opinione che il terrorismo sia un male, che raggiunga o meno gli scopi prefissati.
Anche l’antiterrorismo, tuttavia, comporta spargimento di sangue.
Non tenterò neppure di affrontare e risolvere tale questione in questa sede.    
Senza dubbio alcuno, questa inchiesta sarà attaccata da alcuni e respinta da altri. Non si pretende esaustiva, si vuole, semplicemente, onesta e obiettiva per quel che si può fare in un brevissimo lasso di tempo.
E se ne infischia delle cautele.
Ve ne accorgerete subito!
Io avrei potuto citare delle voci, dei “si dice”, delle maldicenze e anche dei documenti, che circolano sia in Vaticano sia nelle sale di redazione italiane.
Me ne sono astenuta nella misura in cui mi sembravano poco credibili.
Io ho attinto, esclusivamente, a fonti “degne di fede”.
Questione di buon gusto e di disposizione psichica.
La mia deontologia è alla portata di tutti coloro che cerchino di penetrare, il più naturalmente possibile, il luogo, per eccellenza, della delegazione del potere divino.
In questo tempo di onnipotenza dei media, il più arduo dei miei compiti è stato di separare il grano dal loglio e di tenere conto del vero a fronte della proliferazione dei bisbigli.
Io non ignoro che una disinformazione più o meno machiavellica alimenti una nebbia di leggende e di dicerie intorno allo Stato di Dio, al solo fine di perpetuarne l’ermetismo. È qui che si inverte il buon senso euristico nella misura in cui l’eccesso di contro-verità finisce per accreditare la tesi che non vi è fumo senza fuoco né fuoco senza fumo.
Io non ho neppure trascurato le testimonianze dirette.
La Chiesa produce anche dei transfuga, che scelgono la libertà di credere e la salvezza fuori della sua cinta millenaria.
Verso, dunque, queste pagine nel dossier della Storia della Chiesa che non ha finito, nella gloria e nella polvere, di stupirci. Saranno considerate un attacco alle fede cattolica romana, in particolare, e al cristianesimo, in generale.
Non sono niente di tutto ciò e possono dare fastidio solo a chi si crede detentore esclusivo di una Verità assoluta ed è privo, allo stesso tempo, di ogni cognizione storica.
Sono una inchiesta su una Chiesa che, dal Concilio Vaticano II, è alla ricerca di se stessa.
Sono una accusa contro uomini chiaramente identificati, che sono, dichiaratamente, nati cattolici romani, ma, contrariamente, non sono, mai, divenuti cristiani.
Uomini che hanno dimenticato che il Cristo ha cacciato i mercanti dal tempio[5], senza preoccuparsi della loro potenza, e non ha temuto di fustigare i dignitari della gerarchia religiosa, a rischio della propria vita.
Oggi, sarebbe al fianco dei magistrati integri e dei cristiani convinti, che hanno dichiarato guerra alla corruzione e alla incuria di una certa curia.
Che i cristiani sinceri abbiano, dunque, la intelligenza di non prendere questo lavoro per una impresa malefica.
Il diavolo non è tra i miei Amici.
Non sono la sola a pensare che si debba sloggiarlo dagli stessi scantinati del Vaticano.
Dalla Sua elezione al soglio pontificio, Jorge Mario Bergoglio, che ha scelto di ispirarsi, già dal nome, a San Francesco di Assisi, non perde occasione per richiamarsi alla “Chiesa dei poveri”; per  ammonire che “San Pietro non aveva un conto in banca, e quando ha dovuto pagare le tasse il Signore lo ha mandato al mare a pescare un pesce e trovare la moneta dentro al pesce per pagare.” [http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/06/11/papa-francesco-chiesa-ricca-non-ha-vita/622456/, http://www.iltempo.it/cronache/2013/06/11/il-papa-san-pietro-non-aveva-il-conto-in-banca-1.1147058], per scagliarsi contro “il peccato della corruzione” e “certi preti untuosi, sontuosi e presuntuosi” che sfoggiano “macchine di lusso” [http://espresso.repubblica.it/attualita/2014/07/14/news/cardinali-milionari-la-mappa-delle-proprieta-private-del-clero-1.173131].
Chi di loro riuscirà a passare per l’evangelica cruna dell’ago[6]?
Voci di rinnovazione della Chiesa si levano ovunque.
Lo Spirito soffia dove vuole.
Si deve lasciare soffiare questo vento.
Perché non disperderebbe, alla luce del sole, tutti quei dossiers, pazientemente accumulati dalle commissioni di inchiesta, nel corso degli scandali Michele Sindona, Roberto Calvi e consociati.
Uno dei più grandi processi del dopoguerra su scala planetaria!
“1 Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo.
2 C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante.
3 Un tempo per uccidere e un tempo per guarire, un tempo per demolire e un tempo per costruire.
4 Un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per gemere e un tempo per ballare.
5 Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli, un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.
6 Un tempo per cercare e un tempo per perdere, un tempo per serbare e un tempo per buttar via.
7 Un tempo per stracciare e un tempo per cucire, un tempo per tacere e un tempo per parlare.
8 Un tempo per amare e un tempo per odiare, un tempo per la guerra e un tempo per la pace.
9 Che vantaggio ha chi si dà da fare con fatica?”[7],
recita l’Ecclesiaste.
Vi è un tempo per le transazioni illecite e un tempo perché la legge degli uomini sanzioni la loro illegalità, per non dire la loro incidenza criminale.
Un tempo per chiudere gli occhi e gli orecchi e un tempo per aprire alla Verità.
Un tempo per la credulità e la pseudo-innocenza e un tempo per una fede lucida, senza accecamento né fanatismo.
“Molti sono andati in rovina a causa dell’oro, il loro disastro era davanti a loro.”[8],
ammonisce l’Ecclesiastico.
Io ho voluto fare luce su uno dei più oscuri enigmi della Storia delle istituzioni umane.
E, forse, contribuirò a spianare le rovine!
Il dedalo del Vaticano non è quello del Minotauro, ma quello del rappresentante di Dio sulla Terra, guardiano pacifico della tradizione ecclesiale.
Sollecito, dunque, indulgenza perché in quel circolo vizioso di eventi contraddittori dalle molteplici interazioni come osare definire ciò che è causa e ciò che è effetto!
E, poiché nessuno di noi ha la Verità assoluta, ma tante piccole Verità unite portano alla conoscenza, ben venga chi offrirà una analisi storica, anche crudele, diversa.
Gliene sarò grata, purché lo faccia con rispetto.
La ricerca della Verità non è così semplice come potrebbe apparire!
Esistono precise barriere nel mondo, forze oscure, ma potenti, che impediscono con tutti i mezzi, che ci si avventuri alla ricerca di una qualsiasi Verità.
Esistono personaggi molto influenti in grado di bloccare qualsiasi iniziativa legittima nell’interesse della Giustizia degli uomini.
Questi personaggi molto potenti vivono secondo leggi e codici che non sono le leggi e i codici degli altri uomini.
Le comuni leggi e i codici in vigore non hanno valore per loro e non si applicano nei loro confronti.
Alla base dell’associazionismo segreto vi è la volontà di una élite di distinguersi, di agire alle spalle per produrre qualcosa che non si può condividere con la massa.
Il sociologo statunitense Edward Hopper sostiene:
“Gli aderenti alle associazioni segrete hanno fondamentalmente tre punti in comune: il desiderio di appartenere a una élite, il sentirsi adepti per diversificarsi da tutti gli altri, avvolgendosi in un alone enigmatico, la certezza di essere nella cerchia nobile di chi determina e costruisce qualcosa che produce cioè qualcosa di inaccessibile alle masse.”
Tutte le Società Segrete per loro natura sono estremamente selettive: mirano a raccogliere individui “particolari” già in sintonia con la natura della società in questione.
Come scrive Heinrich Cornelius Agrippa von Nettesheim[9] nel suo  De Occulta Philosophia:
Abbiamo trasmesso quest’arte in modo che essa non rimanga occulta agli uomini prudenti e intelligenti, ma anche in modo che non ammetta ai suoi arcani i malvagi e gli increduli, così che essi restino a mani vuote sotto la meschina ombra della ignoranza e della disperazione. Solo per voi, figli della dottrina e della sapienza, abbiamo scritto questa opera.
Se uno di noi, uno qualsiasi di noi, decidesse di essere iniziato a una Società Segreta, che cosa avverrebbe?
Secondo Mircea Eliade, verrebbe modificata tutta la sua vita. Nel suo saggio Il sacro e il profano si legge:
Generalmente l’iniziazione comporta una triplice rivelazione: quella della morte, quella del sacro e quella della sessualità. Il fanciullo ignora tutte codeste esperienze; l’iniziato le conosce, le assume e le integra nella sua nuova personalità. Si aggiunga che il neofita muore alla propria vita infantile, profana, non rigenerata, per rinascere a una nuova esistenza santificata: rinasce anche a un modo di essere che gli rende possibile la conoscenza, la scienza. L’iniziato non è soltanto un nuovo nato, un resuscitato: è anche un uomo che sa, che conosce i misteri, che ha ricevuto delle rivelazioni di ordine metafisico. Durante l’apprendistato nella boscaglia egli impara i segreti sacri: i miti riguardanti gli dei e l’origine del mondo, i veri nomi degli dei, l’uso e l’origine degli strumenti rituali impiegati nelle cerimonie di iniziazione. L’iniziazione equivale alla maturità spirituale e in tutta la Storia religiosa dell’Umanità troviamo, sempre, questo tema: l’iniziato, colui che ha conosciuto i misteri, è diventato colui che sa.
Quale ragione spinge un gruppo di individui a costituire una Società Segreta?
La ragione muove, principalmente, da scopi di tipo utilitaristico e materiale, che portano a costituire una società di mutuo soccorso, nella quale trovare aiuto da parte dei confratelli.

Daniela Zini
 


“Chi tace e chi piega la testa muore ogni volta che lo fa, chi parla e chi cammina a testa alta muore una volta sola.”
Giovanni Falcone

ai Magistrati e alle Forze dell’Ordine, che, quotidianamente, sono impegnati nella lotta alla criminalità organizzata.
A chi sostiene che tanto non cambierà mai nulla, vorrei dire:
“Il problema siamo tutti noi che non facciamo nulla.
Stabiliamo una presenza costante o avremo una costante violenza.
Meglio provare e non riuscire che non riuscire a provare!”
Daniela Zini



Crediamo, veramente, di conoscere tutto ciò che accade sul nostro pianeta?
Gli uomini che occupano uno spazio di primo piano sulla scena politica dispongono di un potere reale?
Il mondo degli affari è viziato da Società Segrete?
Molti sostengono che potenti personaggi esercitino un controllo assoluto su tutti gli eventi mondiali.
È il problema essenziale che tratteremo in questa inchiesta, dove si dimostra, attraverso una serie di esempi stupefacenti, che la sorte delle Nazioni dipende, sovente, dalla volontà di gruppi di uomini che non hanno alcuna funzione ufficiale. Si tratta di Società Segrete, veri cripto-governi, che reggono la nostra sorte a insaputa di tutti. La loro esistenza non può essere avvertita che quando un fatto imprevisto li obbliga ad agire alla luce del sole.
Circa due anni e mezzo prima del suo assassinio, il 27 aprile 1961, John Fitzgerald Kennedy tenne ai rappresentanti della stampa, riuniti presso l’Hotel Waldorf-Astoria di New York, un discorso incentrato sulla analisi e sul pericolo della Guerra Fredda [http://www.youtube.com/watch?v=PFMbYifiXI4][10], tuttavia, alcuni suoi passaggi, sembrano alludere, non alla sfida acerrima contro l’Unione Sovietica, ma a qualcosa di altro di più oscuro e di più pericoloso.
“[…] La stessa parola “segretezza” è ripugnante in una società libera e aperta; e noi, come popolo, siamo intimamente e storicamente contrari alle Società Segrete, ai giuramenti segreti e alle procedure segrete. Abbiamo deciso, molto tempo fa, che i pericoli di un eccessivo e ingiustificato occultamento di fatti pertinenti superino, di gran lunga, i pericoli che vengono invocati a giustificazione. […]”
La storia è costellata di enigmi intorno alle Società Segrete, che si tratti di potenti organizzazioni economiche, sociali, politiche o di clubs privati riservati a una élite.  
Pressoché tutte le civiltà sono state, in un’epoca o in un’altra, il rifugio di queste società dell’ombra: riunioni dietro porte chiuse, divieto di rivelare ciò che si dice all’esterno, sospetto a ogni gesto o parola di uno dei membri...
Il mistero di cui le Società Segrete si ammantano non è avulso dall’interesse che suscitano appena se ne parli.
E se si cercasse di squarciare questo mistero?
Che ne è della sedicente influenza delle Società Segrete attraverso la storia?
Sono state, sono così potenti come si pretende?
Vi è motivo di temerle?
Tante domande alla partenza di una appassionante incursione nel cuore delle Società Segrete più celebri della storia.
In questo reportage, solidamente documentato, penetreremo all’interno delle Società Segrete più conosciute, riassumendone la storia, descrivendone i riti di iniziazione, i segni e il linguaggio, che sono loro propri.
Se le voci che circondano le Società Segrete, rispondono, in parte, alla sete di meraviglioso, che ci viene dalla nostra infanzia, contribuiscono, troppo sovente, ad assumere un pensiero non critico, che degenera, facilmente, in paranoia.  
Dedicare una inchiesta alle Società Segrete in un mondo, in cui la cultura del segreto [di Stato, scientifico, nucleare, ecc.] viene, incessantemente, a ricordarci che, in quanto semplici cittadini, noi restiamo fuori degli arcani di una conoscenza superiore, cui solo gli “eletti” [capi di Stato, militari, diplomatici, spie, ecc.] possono accedere, mi è sembrata una idea luminosa e illuminante.
Non sono, certo, la prima, tuttavia, i miei predecessori sono stati, sovente, credibili, ma discutibili, perché, occorrendo un inizio di cui non si aveva prova, questo è stato, sovente, su un continente scomparso o su un disco volante.
Una delle numerose tesi ricorrenti sulle Società Segrete è che le suddette Società Segrete funzionino come le nostre società “reali”, di cui rappresentano dei doppi sovversivi, critici, inaccessibili, ma anche necessari per controbilanciare l’ordine mondiale, governato dai poteri temporali, sensatamente trasparenti, perché eletti secondo principi democratici.
Scrive Georg Simmel:
“Le Società Segrete sono, per così dire, delle repliche in miniatura del “mondo ufficiale”, al quale resistono e si oppongono.”
L’inizio delle Società Segrete si perde, necessariamente, nella rarefazione delle tracce di un passato sempre più lontano: Grecia, Egitto dei faraoni neri, Sumer e, forse, oltre…
“In principio era il buio.”
Sarebbe stato più comodo iniziare dalla fine, giacché le società stesse sono alla ricerca delle loro origini.
“Poi fu la luce.”
Allorché si ergeva nella direzione da cui veniva la luce, l’uomo era in contatto con il divino e le difficoltà materiali della vita, che, forse, formavano, allora, una unica cosa, ma che sarebbero divenute, con la nascita del verbo e il risveglio dell’uomo alla parola, i due  poli della sua esistenza. 
Nessuno sa quanto tempo l’uomo sia vissuto al riparo del dubbio neppure se ne sia stato, mai, abitato.
Ma che la sua prima parola sia stata un inno alla natura o una espressione del suo bisogno alimentare… ben presto, l’uomo iniziò a tentare di condividere le proprie idee con i suoi fratelli e, ben presto, i più sottili di questi concetti richiesero più che parole: la trasmissione dell’esperienza e, dunque, l’iniziazione.
È possibile che le prime iniziazioni abbiano riguardato il modo di sopravvivere nella divina natura circostante. O che abbiano trasmesso la certezza di un mondo spirituale nascosto dietro la materia.
Nell’Antichità, i culti misterici si svilupparono e conobbero un grande favore nel mondo greco-romano.
In seguito, il Medioevo, teatro di guerre di religione, dette vita ai misteriosi Templari.
Nel Rinascimento, le Società Segrete assunsero tutta un’altra dimensione con il leggendario ordine dei Rosa-Croce e, soprattutto, con la nascita della Massoneria.
Il XIX secolo segna, ancora, un’altra svolta: la proliferazione delle Società Segrete, che hanno, come corollario, legittimazioni, prestiti sempre più diversificati e una attrattiva per la razionalità scientifica. 
Il periodo contemporaneo è segnato da una moltiplicazione di Società Segrete, in particolare nell’era di Internet, con possibili derive settarie a apocalittiche.
La storia delle Società Segrete ha una importante influenza sulla storia. Esiste una versione ufficiale della storia, versione detta esoterica, che tiene conto delle Società Segrete, perché sono, sovente, uscite dall’ombra.
Ma ciò che questa storia non dice sono le ragioni segrete dei loro interventi.
E, per comprenderle, è alla storia esoterica che bisognerà interessarsi.
Queste Società Segrete sono, profondamente, legate alla magia, a partire dai documenti più antichi in nostro possesso.
Vi farò la grazia, tuttavia, di farne ricadere la colpa, come è, sovente, il caso, sui massoni, sui sionisti o su Satana.
Andrò, subito, al cuore del problema, esprimendomi senza ambage, senza temere di affrontare i sistemi criminali, basati sul controllo, il potere e la manipolazione. 
Un nuovo modo di considerare il mondo in cui viviamo!





SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
1. LA CAMORRA
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
2. L’ANNORATA SOCIETA’
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
3. SI UCCIDE UN MINISTRO CAMORRA SOTTO ACCUSA
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
4. I RIFIUTI TOSSICI IN CAMPANIA
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
1. LA MAFIA AL CUORE DELLO STATO
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
2. LA ONORATA SOCIETA’
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano Massoneria - Parte Prima -
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano Massoneria - Parte Seconda -
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
4. MAMMA COMANDA PICCIOTTO VA E FA’
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
5. TURIDDU 65 ANNI DOPO
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
III. I SAMURAI
1. LA SPADA E IL CILIEGIO
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
III. I SAMURAI
2. IL LEGGENDARIO SACRIFICIO DEI 47 RONIN IN ONORE DEL DAIMYO DI AKO, ASANO TAKUMI NO KAMI NAGANORI
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
III. I SAMURAI
3. CHANOYU, L’ARTE DEL TE’
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
IV. L’ORDINE SOVRANO DEI CAVALIERI DEL TEMPIO
1. IL PROCESSO DEI CAVALIERI DEL TEMPIO
di Daniela Zini

 

Mausoleo Ossario

In nessuno degli Stati italiani presistenti all’Unità sorsero tante Società Segrete quante nel Regno delle Due Sicilie.
A Palermo nacque, ai tempi di Francesco I [1777-1830], la setta dei Seguaci di Muzio Scevola, cui aderirono anche molti ufficiali e sottufficiali dell’esercito borbonico e preti. Mentre preparava un moto rivoluzionario, fu scoperta e mortalmente colpita. Dieci adepti vennero giustiziati, tra i quali due preti e lo stesso fondatore della setta, Salvatore Meccio.
In Sicilia sorsero, anche, le sette dei Seguaci di Bruto, dei Sette Dormienti, dei Pellegrini Bianchi, dei Veri Patrioti, della Repubblica, la quale, fondata dal prete Giovanni Krymi [1794-1754], varcò lo stretto e mise radici a Reggio Calabria.
Di non trascurabile importanza fu la setta palermitana Nuova Riforma, che fece un serio tentativo di organizzazione, bruscamente troncato dalla polizia: due dei suoi adepti finirono sulla forca e molti altri in carcere.
Ben più pericolosa si mostrò un’altra setta, nata nelle carceri palermitane a opera di un infaticabile agitatore politico, Giuseppe Abela. Aveva diramazioni al di fuori delle prigioni e si proponeva di far saltare con una mina l’edificio carcerario; liberare tutti i carcerati; assalire di sorpresa gli austriaci, che, allora, presidiavano Palermo; impadronirsi dei forti e delle armi ivi custodite e proclamare la libertà dell’isola. Ma la mina si rivelò troppo fiacca: lo stabile resisté allo scoppio e i soldati, subito accorsi, resero impossibile la rivolta. Abela venne condannato a morte e fucilato.
Nel bagno penale di Favignana, una delle Isole Egadi, si costituì tra i detenuti una società. Contavano di potere evadere dal bagno, sbarcare nella vicina Marsala, marciare su Trapani, attirare a sé molta gente e, con il suo aiuto, scacciare le guarnigioni austriache dalla Sicilia. Ma l’organizzazione fu scoperta prima che passasse all’esecuzione del piano. Vi furono arresti, inquisizioni, condanne: cinque congiurati vennero giustiziati.    
Tra le sette fondate sul territorio continentale del Regno va ricordata quella leccese degli Edennisti, di cui fece parte un famoso uomo politico, Liborio Romano [1793-1867], destinato a rappresentare una parte di primo piano negli ultimi anni della monarchia. Nel 1826, venne arrestato come edennista e passò un anno in carcere.
A Barletta, nacque la società segreta Tomba Centrale, il cui nome alludeva alla tomba, in cui sarebbe stato sepolto il dispotismo borbonico.
A Napoli, ebbe vita la setta dei Filadelfi, la più attiva e pericolosa di tutte le sette minori. Di origine transalpina e di ispirazione liberal-repubblicana, preparò la rivolta del Cilento del 1828, durante la quale venne inalberata la bandiera tricolore e proclamata una costituzione di tipo francese.
Altre due sette nacquero nel Cilento, sotto Ferdinando II: la Propaganda e la Fratellanza. La prima ordì una vasta congiura, che venne scoperta nel 1837, e dette origine a un colossale processo che popolò le carceri. La seconda, che aveva carattere comunista, fu scoperta nel 1843: delle duecentosessantaquattro persone processate un centinaio andò in prigione senza giudizio, undici furono relegate, per sei anni, nelle isole e trenta mandate in esilio.
Ma queste non erano che le Società Segrete di minore rilievo. Le più importanti furono tre: la Carboneria, la Giovane Italia e l’Unità Italiana.
La Carboneria fu creata sul modello dell’analoga società francese. Giunse a diventare un vero Stato nello Stato, che reclutava adepti in tutte le classi sociali, impartiva loro una certa istruzione militare e giudicava le loro colpe in un tribunale segreto, senza ricorrere alla giustizia ordinaria. Verso il 1820, il centro principale della Carboneria italiana fu creato proprio a Napoli, ove rimase per alcuni anni. Anche a Napoli, la Carboneria si presentò con le sue caratteristiche tradizionali: il mistero dei suoi riti, il simbolismo dei suoi nomi, la sua complicata costituzione gerarchica. Vi si iscrissero molte donne chiamate in gergo carbonaro “giardiniere”, le quali riuscivano utilissime come messaggere, poiché la polizia sospettava di loro molto meno che degli uomini.
Si può dire che, per molto tempo dopo i moti del 1820, la maggior parte delle rivolte scoppiate nelle Due Sicilie siano state fomentate dalla Carboneria o comunque da essa favorite tramite sette minori dello stesso tipo. Ma il fallimento di tutte quelle imprese provocò la sua decadenza.
Ne approfittò Giuseppe Mazzini per soppiantarla con la Giovane Italia, da lui stesso fondata, nel 1831, dopo aver accusato la Carboneria di essere troppo individualista e, pertanto, incapace di inquadrare, organicamente, le forze rivoluzionarie della Penisola. Grandi speranze sorsero nel Regno Borbonico per l’azione mazziniana; ma appena le speranze entrarono in contatto con la realtà sfumarono. Nessuna delle insurrezioni, fomentate, nelle Due Sicilie, dalla Giovane Italia, ebbe successo; furono tutte soffocate nel sangue, compresa la maggiore, scoppiata a Cosenza, nel 1844.
Né maggiore successo ebbe la terza delle tre grandi società: l’Unità Italiana, costituita, nel 1848, da Silvio Spaventa [1822-1893], futuro deputato e ministro del Regno d’Italia. Lo statuto e il programma dell’associazione furono scritti da Luigi Settembrini [1813-1876]. Ma fino dagli inizi fu travagliata da lotte intestine tra monarchici e repubblicani. Inutilmente Spaventa scongiurava i compagni:
“Prima abbattiamo il Borbone e poi pensiamo alla forma di governo.”
Non fu ascoltato!
Così, l’azione della società rimase completamente paralizzata. Nonostante ciò, scoperta dalla polizia, subì un clamoroso processo, che durò otto mesi [giugno 1850 – gennaio 1851] e appassionò per la notevole personalità degli imputati tutta l’Italia e l’Europa. Sul banco degli accusati, insieme a Spaventa e a Settembrini, vi era anche Carlo Poerio [1803-1867], che era stato ministro  di Ferdinando II [1810-1859]. Ironia della sorte: era completamente estraneo all’associazione, cui non aveva voluto iscriversi perché non credeva affatto nella sua utilità. Il processo fu, attentamente, seguito da un giovane amico del rappresentante diplomatico inglese a Napoli: William Ewart Gladstone [1809-1898]. Figlio di un libero Paese rimase indignato dalla mostruosità del processo, chiusosi con tre condanne a morte – di cui una sola, tuttavia, fu eseguita –, molte condanne all’ergastolo e ad alquanti anni di reclusione. Gladstone provò a visitare i condannati in carcere per assicurarsi della veridicità di certi voci che riferivano che i prigionieri fossero trattati come bestie, legati due a due con pesanti catene, costretti a vivere in tetre e fetide celle, insieme a una decina di autentici criminali, e subissero, talvolta, sevizie e torture, quali l’introduzione sotto le unghie di ferri appuntiti o l’uso del borzacchino, uno stivaletto di ferro, in cui veniva versata pece bollente. Riuscì nel tentativo e, nel bagno penale di Nisida, poté parlare, soprattutto, con Poerio. Quello che vide e apprese superò le sue stesse previsioni. Fu proprio l’orrore sucitato in lui da quelle carceri che lo spinse a scrivere a un suo amico, lo statista inglese lord George Hamilton Gordon Aberdeen [1784-1860], le famose lettere di denuncia, in cui bollava di ignominia il regime borbonico, chiamandolo “negazione di Dio”.      
    
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano-Massoneria
- Parte Terza –

 “Et favere et pati fortia romanum est.”



ROMA CAPUT IMMONDUM
“Possis nihil Urbe Roma visere maius.”
Quintus Horatius Flaccus



Roma capomunni

Nun fuss’antro pe ttante antichità
bisognerebbe nassce tutti cquì,
perché a la robba che cciavemo cquà
c’è, sor friccica mio, poco da dí.

Te ggiri, e vvedi bbuggere de llí:
te svorti, e vvedi bbuggere de llà:
e a vive l’anni che ccampò un zocchí
nun ze n’arriva a vvede la mità.

Sto paese, da sí cche sse creò,
poteva fà ccor Monno a ttu pper tu,
sin che nun venne er general Cacò.

Ecchevel’er motivo, sor monzú,
che Rroma ha perzo l’erre, e cche pperò
de st’anticajje nun ne pô ffà ppiú.

Giuseppe Gioacchino Belli [1791-1863]



A. Lo scandalo della Banca Romana
125 anni fa, la scoperta che Bernardo Tanlongo[11], governatore della Banca Romana, la più importante banca del Regno d’Italia, avesse messo in circolazione, a corso illegale, 60 milioni “abusivi”, portò l’economia italiana sull’orlo del collasso, costringendo il Governo Giolitti alle dimissioni.  


La cassa de sconto

Dar Popolo pe annà a li Du’ Mascelli
su la Piazza de Spaggna a mmano manca
in fonno a la piazzetta Miggnanelli,
ve viè de petto una facciata bbianca.

Llí, a llettere ppiú ggranne de ggirelli
tutti indorati, sce sta scritto: Bbanca
Romana. Ebbè, ccurrete, poverelli,
ché de príffete llí nnun ce n’amanca.

Sta bbanca inzomma è una scuperta nova
pe ddispenzà cquadrini a cchi li chiede
in qualunque bbisoggno s’aritrova.
Sortanto sc’è cche sta Bbanca Romana,

com’ha ddetto quarcuno che cciaggnéde,
capissce poco la lingua itajjana.

Giuseppe Gioacchino Belli [1791-1863]




Una vignetta satirica tratta dal periodico romano L’Asino. Il “giudice” ritratto pronuncia la battuta: “Vedete? La cassa dei documenti è chiusa a chiave. State certi che nessuno né è scappato, né può scappare.”

Su ministri, segretari,
su tornate in fitta banda
che nessuno vi domanda
la fedina criminal!

Fin dai tempi di Tanlongo
ci stringemmo in mutuo patto,
che possiamo col riscatto
ferroviario rinnovar.
Il riscatto ferroviario
il governo non farà
e vivrem dell’onorario
delle sacre Società.

L’adorato capitale
venga ognor tra queste braccia:
No, d’inchieste la minaccia
più nessun deve temer!
Se divisi siam canaglia
figurarsi in compagnia:
Si prepara l’allegria
di un eterno carneval!

Ogni cosa è in mano nostra:
noi disfar, rubar possiamo:
La consegna sia: mangiamo!
Troppo triste è il digiunar!
Il riscatto del succhione
oggi alfin s’inizierà,
ed il popolo zuccone,
sempre buono, pagherà.

Fondata nel 1840 con il nome di Società Commerciale, fino dagli inizi questa banca si segnala per l’allegra finanza. I suoi dirigenti hanno, infatti, la smodata tendenza a stampare valuta papalina in cifra superiore alle reali possibilità dell’istituto. Inutilmente due pontefici, Gregorio XVI [1765-1846] e Pio IX [1792-1881], intervengono sul loro istituto di emissione per frenare tanta prodigalità. Non solo le irregolarità amministative continuano, ma vengono anche ereditate dallo Stato italiano, che se non fosse per un riguardo alla Santa Sede, si sbarazzerebbe, di buon grado, della banca. Purtroppo, lo escludono ragioni di opportunità politica e, così, a Roma divenuta la capitale del Regno, la Commerciale, ora Banca Romana, sviluppa il proprio pericoloso giro di affari e diviene, molto presto, un centro di corruzione politica.
Dal 1881, a questa attività dà particolare slancio Bernardo Tanlongo, un ex-fattore, un affarista divenuto governatore dell’istituto grazie a potenti amicizie. Accreditato per la sua “onestà laboriosa”, questo intrallazzatore di primo ordine, privo di scrupoli e di qualsiasi nozione di economia finanziaria, è deciso a difendere una posizione così avventurosamente conquistata.
Nel 1881, è, pertanto, generoso di milioni a giornalisti, deputati, economisti, perché ritardino l’approvazione di una legge che, abolendo il regime di concessione valutaria, condannerebbe a morte la sua banca, che si regge solo in virtù delle poprie emissioni.
E, anche quando la legge del 1883 viene approvata, Tanlongo non demorde.
Per tenere in piedi una impresa così redditizia è pronto a mettersi fuori legge e a stampare biglietti bancari in grande segreto. Per maggiore sicurezza, li ordina in Inghilterra e in serie doppia, per meglio confondere eventuali investigatori. Poi, con tenacia tutta artigianale, li firma a casa, a uno a uno, con un torchietto, prima di rimpinguarne le casse della banca.
L’ingegnosa intraprendenza di Tanlongo non è, tuttavia, la sola ad animare, in quegli anni, la vita economica dell’Italietta. Speculazioni edilizie e audaci iniziative industriali trovano facile sostegno nel sistema bancario, in particolare nelle banche di emissione. Alla lunga, tuttavia, la “puzza di bruciato”, che filtra da queste cucine, in cui si rimescolano affari al limite e al di là del lecito, dà, finalmente, luogo a una inchiesta amministrativa, che investe anche la Banca Romana. Rivalità politiche all’interno della maggioranza ministeriale la generano, Francesco Crispi [1818-1901], allora presidente del consiglio, l’approva, il ministro Luigi Miceli [1824-1906] la sovraintende, l’ignaro senatore Giuseppe Giacomo Alvisi [1825-1892] la dirige, e l’incorruttibile funzionario Gustavo Biagini la esegue. Ma, quando i risultati della indagine giungono sul tavolo del ministro dell’industria, sono tali da spaventarlo e indurlo a rappezzare la situazione. Biagini è trattato da pazzo visionario ed è ordinata una nuova ispezione, che verifica come il deficit di 10 milioni di biglietti falsi, precedentemente rilevato, sia, miracolosamente, svanito. Ve ne è abbastanza per lodare l’eccesso di zelo del funzionario inquirente, promuoverlo al altro incarico e seppellire la relazione che Biagini inoltra a chi di dovere.
A cercare di denunciare lo scandalo rimane solo il senatore Alvisi.
Inutilmente!
Appena un anno dopo la sua morte, il repubblicano Napoleone Colajanni [1847-1921] può dare lettura della relazione Biagini, che il senatore ha legato in punto di morte ad alcuni amici.
Lo fa il giorno in cui la Camera è chiamata a discutere la proposta avanzata da Giovanni Giolitti [1842-1928] di prorogare di altri sei anni il regime delle concessioni monetarie alle banche “chiacchierate”.
La requisitoria dell’ex-garibaldino siciliano è anche diretta contro il neoeletto presidente del consiglio ed è tanto più vibrante di indignazione in quanto, poco più di un mese prima, l’uomo di Dronero, anche lui legato da vincoli di riconoscenza al disinvolto trasteverino, lo ha fatto nominare senatore.
Il rapporto suscita le violente ire della maggioranza, Colajanni è coperto di ingiurie e contro di lui volano anche alcuni sgabelli.
Miceli lo accusa di falso e giura sull’onorabilità di Tanlongo.
A sentire questi signori, non è vero che il banchiere distribuisse “omaggi” in lire; che a diversi notabili del Regno rinnovasse cambiali senza fine; che prestasse, generosamente e a tassi agevolati, a molti, tra i quali anche Crispi; che fosse, perfino, il canale attraverso cui Umberto I [1844-1900], da pioniere della fuga di capitali all’estero, mandava i propri risparmi alla Banca di Inghilterra.
Infine, l’accusato sembra essere Colajanni.
Pochi giorni dopo, tuttavia, Giolitti non può esimersi dal nominare una commissione di inchiesta amministrativa, anche se, lo stesso giorno, fa nominare Tanlongo, cittadino al di sopra di ogni sospetto, membro della commissione di vigilanza del debito pubblico.
Questo è troppo anche per i più pavidi, mentre per i più increduli giunge la denuncia della commissione di inchiesta, che, nella Banca Romana, ha rilevato 70 milioni clandestini, 40 a serie doppia, 20 di deficit, come risultato di una serie di falsi che durano da oltre venti anni.
Tanlongo è arrestato, e benché non finisca in una accogliente infermeria, si ritrova, comunque, in una cella a pagamento, riscaldata e arredata con i mobili fatti venire da casa.
Fuori, intanto, continua la battaglia politica e parlamentare; mentre, foglio a foglio, i documenti più compromettenti nell’istruttoria si perdono per strada.
Quelli che rimangono a disposizione della seconda commissione di inchiesta, quella parlamentare “dei sette”, sono sufficienti per determinare la caduta del Governo Giolitti, ma non hanno la forza di mandare in prigione qualche onorevole o ministro.
Troppi sono i politici coinvolti e molti di loro i potenti.
In ultimo, lo stesso Tanlongo “se la cava”.
E non può essere altrimenti!
È depositario di troppi segreti perché possa marcire in galera.
Al processo viene assolto.
Evidentemente, ai giudici togati è difficile condannare un banchiere di regime e un falsario di Stato!          



RISCHIO POVERTA’ PER 9,5 MILIONI DI ITALIANI



Il tasso di disoccupazione nella zona euro è sceso al 10,5% a novembre, ed è il più basso dall’ottobre 2011. Questi dati positivi diffusi da Eurostat mostrano come il numero di disoccupati, nei 19 Paesi del blocco della moneta unica, è sceso a 16,92 milioni a novembre, un numero ancora elevato, ma che significa 130.000 persone in meno rispetto al mese precedente.
Una pesante nota negativa riguarda però la disoccupazione giovanile, ancora molto alta, al 22,5%. Agli estremi troviamo naturalmente la Germania e la Grecia, rispettivamente la migliore e la peggiore nella classifica. 
 





Nel caso specifico dell’Italia, il calo di settembre [- 0,2%] e ottobre [- 0,2%] a novembre 2015 ha garantito a 36.000 nuovi lavoratori una occupazione. Ma, nonostante il calo di disoccupazione, crescono le famiglie in difficoltà. Il disagio sociale è aumentato del 3% in dodici mesi [+ 283mila unità]. È quanto risulta dai dati pubblicati, il 12 gennaio scorso, da Unimpresa [http://www.unimpresa.it/crisi-unimpresa-a-rischio-poverta-95-milioni-di-italiani/11658]. Oltre 9,5 milioni di italiani sono a rischio.



“Quanto al merito delle imputazioni dico innanzi tutto che io non mi sono approfittato di un centesimo durante la mia gestione della Banca Romana; anzi, posso dire di averci rimesso del mio; può ciò facilmente desumersi dalle condizioni del mio stato patrimoniale che non è migliorato da che io andai a dirigere la banca, anzi mi ha peggiorato.”
Bernardo Tanlongo
Palazzo Maffei Marescotti, sede della Banca Romana.

Nel novembre del 1892, venne consegnato al direttore della Banca Romana, un plico con tanto di fregio reale.
Il commendatore Bernardo Tanlongo l’aspettava da tempo.
In un certo qual modo, la lettera, firmata da Umberto I, rappresentava il punto di arrivo di una attività iniziata, cinquanta anni prima, nell’agro malarico che circondava Roma. Allora, comandavano i papalini, abituati a giudicare i collaboratori per il buon carattere più che per le capacità professionali.
Tanlongo, uomo fortunato, possedeva l’uno e, in parte, le altre.
La sua carriera, anche per questo, era stata ottima.
Aveva iniziato, dopo avere studiato un po’ di economia, acquistando e vendendo terreni. Di tanto in tanto, a differenza dei principi dell’aristocrazia nera, si recava all’estero e, con gli occhi bene aperti, guardava quello che accadeva. Così, apprendeva, sempre, qualcosa di utile da mettere, poi, a profitto. Grazie ai suoi consigli, a esempio, fu piegata una grave malattia del bestiame, che stava distruggendo il patrimonio bovino, non troppo ricco, dei possedimenti pontifici. Per tali benemerenze, Tanlongo aveva ottenuto i primi incarichi pubblici.
Di politica, in senso stretto, Tanlongo non si interessava. Comprendeva, tuttavia, da disincantato trasteverino qual era, che il mondo andava cambiando.
Presto o tardi, i Savoia si sarebbero impadroniti dell’Italia intera.
In fondo, lo meritavano perché, in nessuna regione come nelle settentrionali, la terra era così ben coltivata e il commercio così fiorente.
A poco a poco, anche se non lo diede a vedere, Tanlongo prese a sperare che Vittorio Emanuele II [1820-1878] o chi per lui, occupasse Roma. Sulla piazza, le persone esperte scarseggiavano. Senza dubbio alcuno, i piemontesi avrebbero finito con il chiedere il suo aiuto.
E lo chiesero.
Dopo la presa di Roma, Vittorio Emanuele II acquistò dei poderi nel Lazio e, a sbrigare gli affari, chiamò proprio Tanlongo.
Le faccende andavano nel modo migliore, quando il padrone si stancò dell’amministratore che, sembra, pretendesse, per alcuni acquisti di bestiame, un compenso considerato eccessivo. Comunque stessero le cose, è certo che Tanlongo venne dispensato dall’occuparsi delle tenute reali.
Ma chi si è procurato delle benemerenze non perisce mai.
E, passo dopo passo – fu, prima, vicedirettore – Tanlongo si trovò a capo della Banca Romana, una delle sei che, nella nuova Italia, battevano moneta. Era un vecchio banco pontificio che, riordinato con decreto reale del 2 dicembre 1870, aveva ottenuto il privilegio di stampare biglietti a corso legale, la cui stampa avveniva, su ordinazione del direttore, a Londra. Il fondo iniziale era di dieci milioni, in diecimila azioni di mille lire ciascuna.
Ricorrevano alla banca di Tanlongo, i personaggi più importanti del momento: industriali venuti a Roma a costruirvi case da affittare, a prezzi salati, agli impiegati dei ministeri; commercianti che ammodernavano le loro botteghe; speculatori dediti alla compravendita dei terreni; e, soprattutto, politici, giornalisti governativi e funzionari statali. Tutti, specie gli ultimi, sembravano contenti di servirsi dal “sor Bernardo”.
Tanlongo, che parlava in romanesco, seguiva nel nuovo incarico i vecchi metodi. Gestiva il banco nel modo, un poco confusionario – “paternalistico”, lo definirà il ministro Luigi Miceli –, caro ai papalini. Qualche elemosina ai bisognosi.
Prestiti ai clienti “coperti”.
Aiuti consistenti ai notabili in difficoltà che, prima o poi, avrebbero ripagato il favore.
Per molto tempo, nessuno si lamentò di tale genere di amministrazione.
Per comprendere l’affare della Banca Romana, bisogna tenere presente che, agli occhi di alcuni dei suoi protagonisti, non venne, a lungo, considerato un “pasticciaccio brutto”.
Di tanto in tanto, è vero, si alzava qualche voce di protesta, ma, come, consigliava l’autorevole Nuova Antologia, non era il caso di badare alle “vane ciarle dei pettegoli e dei maligni”.
Meno tranquillo del cronista si sentiva, probabilmente, Tanlongo se, per mettersi al sicuro dalle “chiacchiere”, pensò bene di sollecitare la nomina a senatore. Avrebbe, così, evitato una eventuale inchiesta giudiziaria.
Il suo migliore alleato sembra fosse Urbano Rattazzi [1808-1873] “prefetto di palazzo” del re. La proposta di assegnare al direttore di banca il laticlavio, accolta dal presidente del consiglio Giovanni Giolitti, fu approvata da Umberto I nel novembre del 1892.
In un primo momento, a dire il vero, il re l’aveva respinta per questioni di censo:
“Non voglio questo bifolco tra i miei senatori!”
Ma si vedrà, aveva anche lui dei debiti di riconoscenza con il “sor Bernardo”.
Nel leggere la lettera, che lo informava dell’alto onore conferitogli, Tanlongo dovette pensare di essere, ormai, immunizzato dai guai. Stavano, invece, per arrivare!
Tanlongo non teneva conto di uno dei pochi uomini che, in tanti anni di carriera, aveva saputo resistergli: Gustavo Biagini, un modesto funzionario. In compagnia di Giacomo Alvisi, un anziano senatore bellunese, Biagini si era recato, nel 1889, da Tanlongo, chiedendogli di controllare i libri di cassa. Dovevano portare avanti, spiegarono i due, una ricerca per conto del Ministero dell’Agricoltura, da cui, allora, dipendevano le banche.
Nel giugno di quell’anno, per chiudere la bocca ai “pettegoli”, il ministro Miceli aveva dato il via, anche se di malavoglia, a una indagine “privat” sull’amministrazione bancaria, affidandola, appunto, ad Alvisi. All’inizio, aveva proposto al senatore la collaborazione di un diverso funzionario, il commendatore Monzilli. Ma Alvisi, che l’aveva rifiutata, si era messo al fianco Biagini.      
Tanlongo giudicò il senatore Giuseppe Alvisi e il funzionario dei perditempo. Ma, quando i due chiesero ragione di certi ammanchi di cassa – subito coperti con un prelievo presso un’altra banca, come si venne a sapere in seguito – iniziò a impensierirsi.
Si sarebbe “lavorato” Biagini!
Lo chiamò nel suo ufficio. E, pare accertato, gli propose di “ lasciare perdere” in cambio, si intende, di una “concreta” riconoscenza. Il modesto funzionario si comportò meglio di altri che, in famiglia, avevano, probabilmente, meno problemi da risolvere di lui. Fece finta di non comprendere. Ma parlò, subito, del tentativo di corruzione ad Alvisi. I due si convinsero, più di quanto già non lo fossero, che avevano messo le mani su un brutto affare.
Non si persero d’animo. Senza dire parola, continuarono a lavorare sodo. E, quando nella casa veneta del senatore, riordinarono i loro appunti, si trovarono a stendere una relazione che, senza esagerazione alcuna, era “esplosiva”.
Il ministro Luigi Miceli non la pensò al loro modo. Dopo averla letta, mal consigliato dal commendatore Antonio Monzilli, diede del “visionario” ad Alvisi, che, per il dolore, si ammalò. Si limitò a riassumere, scegliendo parole piuttosto caute, la relazione in poche paginette. E, con quelle, si recò a una seduta dei ministri. Il governo era, allora, presieduto da Francesco Crispi che, fedele al titolo di “redentore d’Italia”, datogli dai giornali, si dedicava, soprattutto, alla tutela della grandeur italica. Era, infatti, deciso a dare “qualche disturbo” alla Francia pronta, a suo dire, ad attaccare di sorpresa il porto di La Spezia. Non tutti i suoi collaboratori e, in particolare, il ministro delle finanze Giovanni Giolitti [al suo primo incarico ministeriale], erano dello stesso parere.
Nella seduta dei ministri si discusse, al solito, molto di affari esteri e poco di quelli interni. Miceli lesse, in fretta, il riassunto della relazione Alvisi-Biagini che, bisogna rilevarlo, non impressionò nessuno.
Scriverà, nelle Memorie, Giolitti:
“La cosa non era affatto di pertinenza mia… Ai ministri colleghi del Miceli non competeva né il diritto né il dovere di entrare per conto proprio nella questione; e noi tutti accogliemmo le conclusioni del ministro competente e della cosa non si parlò più… Del resto, non conobbi la relazione particolare del Biagini, assorbita per me, quale membro del gabinetto, dalla relazione generale fatta dal ministro Miceli.”
Sembra, tuttavia, che, in quello o in altro incontro ministeriale, Giolitti non si limitasse ad ascoltare. Secondo una intervista, concessa da Francesco Crispi nel bel mezzo dell’“affare”, avrebbe sostenuto, nel 1890, che “esistevano fatti passibili di codice penale nella faccenda della Banca Romana”.               
Per ignoranza, per quieto vivere o per inganno, la discussione fu, comunque, rinviata. Prima o dopo, certo, bisognava affrontare in modo organico la questione delle banche. Ma, per adesso, era meglio soprassedere. Si doveva pensare ad altro; alle crisi ministeriali, a esempio, che si susseguivano l’una all’altra e alle elezioni.
Nel 1892, Giolitti diveniva presidente del consiglio, nonostante Crispi, richiesto di un parere dal re, avesse detto di lui:
“Non ha studi, non ha esperienza, non ha arte di governo, conosce appena l’amministrazione.”
Lo stesso anno, nasceva il Partito Socialista Italiano; cosa che, unita agli scioperi del Meridione, mise in agitazione i gruppi che avevano a cuore la “concordia nazionale”.   
Quando il senatore Alvisi seppe della sua relazione, si guardò intorno e si chiese se fosse quella l’Italia che, lui e altri patrioti risorgimentali avevano immaginato mentre la mettevano insieme tanto faticosamente. Le stesse domande, più o meno, si rivolgeva Biagini, trasferito d’ufficio con la moglie e le figlie in diverse città della penisola.
Il senatore Alvisi morì di crepacuore. Prima di andarsene, per mettersi del tutto la coscienza in pace, inviò copia della propria inchiesta a Maffeo Pantaleoni [1857-1924], un noto professore di economia.
Furono alcuni intellettuali, Maffeo Pantaleoni, Vilfredo Pareto [1848-1923], a rilanciare l’“affare”.
Studiarono la relazione Alvisi-Biagini. Si convinsero che, sottraendola all’opinione pubblica, si sarebbero resi complici di una situazione che condannavano. Consegnarono, pertanto, il materiale in loro possesso all’onorevole Napoleone Colajanni, deputato siciliano di origine garibaldina e di tendenza socialista.
Colajanni annunciò ai giornali che, nell’assemblea del 20 dicembre 1892, avrebbe interrogato il presidente del consiglio sulla gestione delle banche, che, stando a documenti “segreti” in suo possesso, doveva considerarsi assai difettosa.
Qualcosa di quanto stava per accadere era, intanto, giunta all’orecchio dei parlamentari.
Lo rivelano alcuni fatti.    
Al Senato, si criticarono le troppe nomine recenti.
“A molte persone  si è concesso un seggio, solo perché non disturbassero altri nella lotta elettorale.”,
disse il senatore Andrea Guarneri [1826-1914].
E, stranamente, la nomina di Tanlongo, che si presentò, egualmente, in aula, non venne ratificata.
Alla Camera, i bene informati dissero che il privilegio di battere moneta, riconosciuto a sei banche, sarebbe stato prorogato solo di tre mesi e non, come si era detto, di sei anni.
Il governo avrebbe, intanto, messo allo studio una riforma del sistema bancario e aperto una inchiesta amministrativa sulla conduzione delle banche.
Il 19 dicembre, infatti, diede notizia della prossima nomina di una commissione presieduta dal senatore Gaspare Finali [1829-1914], e il 20, ad apertura di seduta, i deputati furono informati della proroga decisa dal presidente del consiglio. Si era davanti, è chiaro, al tentativo di ostacolare un dibattito che, ovviamente, avrebbe dato fastidio a molta gente.
Ma Colajanni parlò egualmente.
Fece la storia della relazione Alvisi- Biagini, nascosta nelle “segrete” del Ministero dell’Agricoltura. Rivelò che documentava il modo disinvolto con cui Tanlongo amministrava il danaro affidatogli: riserve mancanti; milioni “abusivi”, ossia stampati e diffusi senza le garanzie d’obbligo; cambiali rinnovate da anni [“in sofferenza”]; prestiti generosi concessi a privilegiati. Tra essi, lasciò capire Colajanni, vi era Crispi.
“Sono voci raccolte nelle strade e nei trivi.”,
gli rispose il ministro Miceli, che definì “paternalistica” la gestione del “sor Bernardo”.
“Perché, se non avete nulla da temere, non pubblicate la relazione Alvisi-Biagini?”,
ribatté Colajanni.
Il motivo gli sembrava facile da intendersi: avrebbe rivelato “molte compromissioni politiche”.
“Bisogna nominare una inchiesta parlamentare composta da uomini insospettabili e insospettati.”,
propose Giovanni Bovio [1837-1903], popolare deputato napoletano.
“No, non è il tempo per un comitato di salute pubblica.”,
lo interruppe Crispi.
Giolitti aderì alla tesi del suo predecessore. Il presidente del consiglio negò di avere letto la relazione Alvisi-Biagini. Sostenne che, se esistevano scompensi nella gestione delle banche, sarebbero venuti alla luce durante i lavori della commissione amministrativa da affidarsi al senatore Finali. Intanto, come chiesto dal governo, si doveva prorogare di tre mesi il privilegio di emettere moneta riconosciuto alle sei banche “chiacchierate”.
La proposta fu approvata da oltre 300 deputati. Voti contrari: meno di 30.  
Le “ciarle dei pettegoli e dei maligni”, invece di sgonfiarsi, accrebbero, dopo la seduta del 20 dicembre.
Si diceva che giornalisti governativi e deputati avessero ottenuto consistenti “omaggi” da Tanlongo.
Ed era vero!
Si diceva che diversi notabili del regno dovessero rispondere di cambiali “in sofferenza”.
Ed era vero!
Si diceva che il re, per favorire la propria amante, avesse spinto il “sor Bernardo”, servendosi del “prefetto di palazzo” Rattazzi, a salvare dal dissesto la Banca Tiberina, dove Eugenia Attendolo Bolognini, duchessa Litta Visconti Arese [1837-1914] teneva il suo danaro.
Ed era vero! 
Si diceva che, lo stesso giorno della denuncia di Colajanni, Crispi avesse ottenuto un altro prestito dalla Banca Romana.
Ed era vero.
Si aggiungeva che Umberto I avesse depositato, ricorrendo a Tanlongo come intermediario, i propri risparmi alla Banca d’Inghilterra [la fuga di capitali all’estero, si vede, non è scoperta recente!].
Ed era probabile!
E, a confermare i sospetti più gravi, accadevano in quelle settimane curiosi accadimenti al personale direttivo delle banche.
Il 31 dicembre, Bernardo Tanlongo, cittadino non più al di sopra di ogni sospetto, veniva nominato, con decreto regio, membro del comitato che doveva vigilare sul debito pubblico.
Nel gennaio del 1893, il commendatore Vincenzo Cuciniello, responsabile della sede romana del Banco di Napoli, scompariva, trafugando 2 milioni e mezzo. Il direttore napoletano veniva arrestato vestito da prete in una strada di Roma e, in giugno, condannato a 10 anni di reclusione.
Poche settimane dopo, a Palermo, il marchese Emanuele Notarbartolo, direttore del Banco di Sicilia, veniva ucciso a colpi di pugnale. Pare fosse deciso a rilasciare, alla commissione di inchiesta, importanti dichiarazioni.   
Il 3 febbraio, il deputato Rocco De Zerbi – [giornalista, ufficiale distintosi nella repressione della banda Crocco, sostenitore della opportunità di rinvigorire la Nazione con “un tiepido fumante bagno di sangue”] –, fortemente sospettato di avere ricevuto dei favori da Tanlongo, veniva “liberato” dalle garanzie parlamentari e consegnato alla magistratura. Anziché deporre davanti al giudice, avrebbe preferito il suicidio.
Antonio Monzilli, proprio l’alto funzionario a suo tempo “protestato” dal senatore Alvisi, veniva accusato di corruzione continuata, peculato e “concorso morale” per avere taciuto quanto di sua conoscenza. Costretto al domicilio coatto, fuggiva a Londra recando con sé 55mila lire avute in prestito da Tanlongo.
E dal 19 gennaio, il “neosenatore” era nelle mani della giustizia. Il “sor Bernardo” veniva prelevato in ufficio e accompagnato dagli agenti, a casa sua. Qui, erano sequestrati diversi documenti. Ma, si dice, non i più compromettenti. La moglie di Tanlongo li avrebbe affidati al cardinale Vincenzo Vannutelli [1836-1930] che, proprio al momento di ritirarli, si era affrettato a chiudere il conto corrente del Vaticano presso la Banca Romana.
Per impedire altre fughe di materiali – alcune lettere, pare, riguardassero il re – Giolitti ordinò che gli fosse consegnata copia di ogni documento sequestrato. Veniva, così, in possesso di “carte” che si riferivano a importanti uomini politici, come Crispi, titolare di “cambiali in sofferenza”, fino dall’aprile del 1887.
“E, adesso, da chi andranno a prendere i denari?”,
può dire, e non a torto, Tanlongo mentre, in carrozza chiusa, lo portavano in carcere. È la sua risposta alla folla che, durante il percorso, ha continuato a urlargli del ladro.
Raccogliendo una storiella, che correva nelle osterie, L’Asino, il foglio satirico di ispirazione socialista, raccontava che Domenico Tiburzi, famoso bandito del Viterbese, da qualche tempo non si faceva più vedere a Roma. Temeva di essere derubato.
Margherita, regina d’Italia, commentò:
“Quante sconvenienti cose dicono quei radicali. Non capisco come tutti i benpensanti non buttano le panche in testa a quei farabutti?”
Se non con gli sgabelli, si oppongono, con il voto, all’offensiva dei deputati, che pretendono siano chiariti i retroscena dello scandalo.  Una nuova richiesta di nominare una commissione parlamentare di inchiesta viene, così, respinta con 274 voti. Ma gli oppositori sono, adesso, 154.
Fin quando Giolitti, che il 26 gennaio viene invitato da Rattazzi a nome del re, a negare il “comitato di salute pubblica”, potrà resistere?
Tra i suoi avversari, si è schierato, perfino, Crispi che, si è detto, abbia molto da nascondere. L’ex-presidente del consiglio attacca per primo, per scombinare i piani dei presunti avversari. In una intervista alla Tribuna, rivela che, nel 1890, Giolitti sostenne che, nelle faccende della Banca Romana, “esistevano fatti passibili di codice penale”. E, in una successiva occasione, aggiunge che possiede, anche lui, dei dossiers ben forniti.     
Giolitti si difende abbastanza bene. Ricorda che la commissione Finali sta completando l’indagine affidatale. Le sue segnalazioni hanno spinto l’autorità giudiziaria a intervenire. Tanlongo e i suoi collaboratori – il figlio Pietro, Giovanni Agazzi, Gaetano Bellucci-Sessa, Cesare Lazzaroni, Pietro Toccafondi, Lorenzo Zammarano – sono in carcere. Si aspettino, quindi, le conclusioni di Finali e del suo vice Martuscelli. Allora, se del caso, si aprirà una inchiesta parlamentare che indaghi sulle eventuali responsabilità politiche nello scandalo delle banche. L’atteggiamento indeciso di Giolitti fu molto discusso. Palamidone, come era chiamato l’uomo politico da L’Asino, “tace per avere l’appoggio dei favoriti delle banche”. Ma il presidente del consiglio era mosso, probabilmente, da ragioni meno discutibili.
Scriverà più tardi, nelle Memorie della mia vita:
“Due timori gravissimi sorsero in me: il primo che un panico disastroso si spandesse in Italia per tutti i biglietti di banca, unica nostra moneta, vigendo allora il corso forzoso, col pericolo di un turbamento incalcolabile di tutta la vita economica del nostro Paese; il secondo, che potesse esservi una circolazione clandestina ancora maggiore di quella accertata… Al primo di questi pericoli altro rimedio non v’era all’infuori di quello che pochi giorni dopo adottai, facendolo poi approvare dal Parlamento, di dichiarare cioè che, trattandosi di biglietti a corso legale, se ne rendeva garante lo Stato. Ma prima di fare tale dichiarazione mi premeva di avere la certezza, per quanto era possibile averla, che il male non fosse più grave di quello che dalle indagini compiute da Martuscelli era risultato.”
I risultati della commissione Finali sono conosciuti dal Parlamento il 20 marzo, dopo poco più di due mesi dalla costituzione della stessa. Rivelano cose in parte già note: la circolazione della Banca Romana, che doveva essere di 75 milioni, è salita  a 135. Esistono, cioè, 60 milioni “senza licenza”. Di essi, 40 portano numeri di serie di banconote già in giro per l’Italia. Il vuoto di cassa è di 20 milioni. Questi espedienti erano serviti a “inventare” denaro da distribuirsi, a titolo di regalo o di prestito, a giornalisti governativi, a deputati amici, a ministri benevoli. Accertano l’inganno, Giolitti stesso propone che si apra una inchiesta parlamentare.
Il 22 marzo, viene nominata la commissione dei sette che, presieduta dall’onorevole Antonio Mordini [1819-1902], lavorerà per diversi mesi e non scoprirà molto di più di quanto avesse, già, rivelato la precedente.
L’“intervallo” servì a creare alibi, convincere alleati riottosi, “costruire” documenti. Nel tessere un’invischiante “tela di ragno”, abilissimo si rivelò, ancora una volta, il “sor Bernardo”. Dal carcere, Tanlongo scriveva lettere, ora insinuanti e ora commosse, ai vecchi beneficiati, ai conoscenti di buon cuore e ai giudici inflessibili. In un biglietto al procuratore generale Domenico Bartoli, confidava “di avere tenute segrete alcune “rivelazioni” per amore di patria”.   Sosteneva che “l’ammanco di cassa dovevasi principalmente ad alcune operazioni ordinatemi da uomini di governo”. Ben tre ministri lo avevano obbligato “ad acquistare titoli di rendita italiana affinché essa non pericolasse perdendo, in tale disastrosa remissione continuata, diversi milioni”.
L’unico suo torto consisteva nel non avere rifiutato, fin dall’inizio, le sopraffazioni dei governanti. Quando aveva accettato le redini della Banca Romana, già esisteva un “vuoto di cassa che superava gli otto milioni”. Non si era messo in tasca una lira, pur “somministrando ingenti somme a tutti i presidenti del consiglio, dal compianto Depretis in poi”. E, a ricompensa, “i veri colpevoli passeggiano impunemente per le città d’Italia e le loro vittime sono nel reclusorio di Regina Coeli”. Ma, uomo religioso com’era, sapeva portare la sua croce:
“Soffro, pazientemente la sciagura che Iddio, servendosi di una camarilla, ha voluto infliggermi, certo che egli permette le avversità convertendole poi in meriti per le anime che sanno profittarne.”
Ma, oltre alle spirituali, Tanlongo teneva molto anche alle benemerenze temporali. In attesa del giudizio, faceva pubblicare le sue “carte segrete” – quelle, sembra, trafugate in Vaticano: lettere di Vittorio Emanuele II, Crispi, Giolitti e via dicendo.
Fu una stagione dominata dalla corsa alle benemerenze. Il re dava, in aprile, feste grandiose per i venticinque anni del suo matrimonio; alle celebrazioni partecipò anche Guglielmo II [1859-1941], imperatore di Germania. Crispi fondava, nella Sicilia turbata dalle rivendicazioni contadine, un sodalizio per l’educazione militare del popolo, sostenendo che “solo se sa maneggiare le armi, esso può dirsi forte”. E, in attesa di ciò, altri chiedevano a gran voce di rafforzare l’esercito, dato che “togliendole il sangue e i nervi, l’Italia potrebbe da un giorno all’altro essere invasa dall’una o dall’altra delle sue frontiere, calpestata dallo straniero e condannata a pagare in un anno i miliardi della sconfitta”.
Se intoccabili erano i notabili, non altrettanto si poteva dire dei protestatari umili. Dopo l’esplosione di una bomba davanti alla casa di Giolitti, in via Cavour, furono arrestate decine di anarchici, gravemente sospetti, perché uno di loro aveva gettato, nel marzo, un cartoccio di sterco contro la carrozza di Umberto I. Un vetturino risultato estraneo al fattaccio, Pietro Ascenzi, fu portato in questura e bastonato. Impazzito in seguito al digiuno e alle percosse, venne chiuso in manicomio. La bomba, si disse nei circoli socialisti, era stata fatta scoppiare da un confidente della polizia, Raul Santiangeli, che “scritturato” dal delegato Raffaele Santoro, si era infiltrato nei circoli anarchici.
Anche Giolitti, che, intanto, aveva fatto approvare dal Parlamento un progetto di legge per l’assorbimento nella Banca d’Italia dei sei istituti “chiacchierati”, dovette adattarsi alla moda delle “pubbliche relazioni”. I suoi amici organizzarono a Dronero un banchetto a pagamento in onore del presidente del consiglio. I convitati si facevano pregare; sedersi alla tavola di Giolitti voleva dire, in un certo qual modo, prendere le sue difese. Per settimane, i giornali stamparono l’uno vicino all’altro, e non senza malizia, due elenchi. Il primo riguardava gli aderenti al convivio che, spesso, negavano, poi, di avere preso l’impegno. Il secondo riportava i nomi dei “beneficiati” di Tanlongo: a Giolitti lire 60mila; allo stesso, lire 40mila; a Crispi…
A Dronero, nel giorno stabilito, il banchetto si tenne lo stesso, e Giolitti propose, in un importante discorso, un’imposta progressiva sul reddito.
Insomma, i “compromessi”, che accrescevano la confusione e sfumavano le responsabilità diffondendo “veline” e “libri bianchi”, memoriali e comunicati stampa, lavorarono con maggiore alacrità dei componenti la commissione di inchiesta. Il presidente Mordini era propenso a togliere, più che ad aggiungere, documenti al suo, ormai voluminoso dossier. Rifiutò, a esempio, certe carte portategli da Achille Fazzari, dicendogli che stavano meglio “nelle mani di un patriota quale egli era”. A dirla in breve, parve a molti che il comitato dei sette non si mostrasse “né abile né volenteroso nel condurre a fondo la missione che gli era stata affidata”, come disse Giolitti.
La relazione finale, la cui lettura occupò cinque ore della seduta parlamentare del 23 novembre 1893, deluse molti dei “moralizzatori”. Come scrisse più tardi Colajanni, l’iniziatore dell’“affare”, “in alto si spaventarono e si cambiò sistema. Iniziò la cernita dei documenti e l’opera di salvataggio”.
Comunque, quel che rimase a galla era sufficiente a far giudicare, in modo severo, la classe politica post-risorgimentale. Tre presidenti del consiglio “deplorati per negligenza nell’esercizio delle loro funzioni”; alcuni ministri, tra gli altri Bernardino Grimaldi [1839-1897], Pietro Lacava [1835-1912] e Luigi Miceli, gravemente compromessi; impegolati in affari poco piliti decine di deputati. Di alcuni, morti dopo le malefatte, si preferì tacere. 
E Giolitti?
La relazione riferì che il presidente del consiglio aveva ricevuto in prestito da Tanlongo 60mila lire. Gli erano servite, al tempo dei festeggiamenti genovesi per la scoperta dell’America, a compensare i giornalisti che, sulla stampa francese, si erano mostrati favorevoli all’Italia. La somma, tuttavia, era stata restituita alla banca con i dovuti interessi. Secondo una dichiarazione, in seguito sconfessata, del direttore della Banca Romana, avrebbe avuto altre 40mila lire durante la campagna elettorale. Non esisteva, tuttavia, alcuna ricevuta o altro che confermasse tale versamento. La commissione, senza dare ascolto a Giolitti, che negò sempre di avere ricevuto il secondo prestito, considerò “non provata” l’accusa.
Se si bada alle prove portate, risulta che il presidente del consiglio in carica, certo responsabile di non essersi opposto alla candidatura al laticlavio di un uomo “chiacchierato” come Tanlongo, era meno colpevole di altri suoi colleghi. E, per favorire una discussione parlamentare sulle sue responsabilità, il giorno 24, diede le dimissioni. Desiderava difendersi, spiegò, dal banco di deputato. Ma il dibattito sulla “questione morale” non ebbe luogo. I politici preferirono dedicarsi ad altre faccende. Il governo fu affidato, dopo un tentativo di Zanardelli, proprio a Crispi che, capo di gabinetto al tempo della relazione Alvisi-Biagini, doveva rispondere, più di altri suoi collaboratori, di incuria e di omissione. Il vecchio politico, che aveva fama di vendicativo, non perdonò mai al predecessore di non essersi addossato errori che gli appartenevano soltanto in parte. Giolitti sarà incriminato durante una “sospensione” della Camera voluta da Crispi.
Si tentò, insomma, di fare pagare il conto a gente estranea o quasi all’“affare”. Quattro funzionari di pubblica sicurezza, nel corso del processo a Tanlongo, vennero accusati di avere trafugato delle lettere di un certo ministro, nelle quali si ordinava al “sor Bernardo” di spendere milioni su milioni “per la difesa della nostra Rendita sui mercati finanziari”. Era , ammise più tardi un avvocato, “un espediente della difesa”. Giolitti, che non fu, mai ascoltato, dai giudici, prese le parti dei quattro accusati, negando, in un biglietto reso pubblico, di avere mai avuto i documenti “perduti”. E, a scanso di dubbi, obbligò il presidente della camera, assai restio ad accontentarlo, a prendere in custodia le “carte” rimaste in mano sua. Alcune, e pare le più innocue, furono pubblicate. Ma, ormai, quasi tutti desideravano seppellire lo scandalo, tanto che nessuno chiese, mai, come fosse andata a finire la liquidazione della Banca Romana, che era stata assorbita dalla Banca d’Italia.
Il “sor Bernardo”, intanto, aveva incontrato sul suo cammino giudici comprensivi. Lo mandarono assolto, come liberi erano, da mesi, gli altri funzionari della Banca Romana. Gli accusatori, esclusi alcuni che si ostinarono a chiedere giustizia, fecero quadrato. Abili nel punzecchiarsi, nelo scontrarsi, nel sorridersi, si trovarono concordi nel bocciare la tassa progressiva sul reddito proposta da Giolitti nel famoso banchetto di Dronero e, da lui, presentata all’approvazione del Parlamento prima delle dimissioni.
Dell’intera faccenda, con tutto quel parlare di cambiali “in sofferenza”, “corso forzoso” e via dicendo, il popolino comprese poco. Ma, benché fosse privo di studi – metà degli italiani era, allora, analfabeta –, impedito a votare, carente di lavoro, dovette avere ben chiara una cosa:
“Qui, sono tutti responsabili!”
Comprese che, nel gran gioco di interessi e di favori, di accuse e di assoluzioni, non pensavano, di sicuro, ai suoi bisogni. 
 
Daniela Zini
Copyright © 25 gennaio 2016 ADZ


[1] Lo storico francese Fernand-Paul-Achille Braudel spiega in Civilisation matérielle, économie et capitalisme [XVeXVIIIe siècle] che Venezia, alla testa dei banchieri fiorentini, genovesi e senesi, fu impegnata dall’inizio del XIII secolo a distruggere le premesse su cui edificare uno Stato nazionale, le cui basi erano state gettate da Federico II Hohenstaufen.
“Venezia aveva deliberatamente imbrigliato tutte le economie circostanti, compresa quella tedesca, al proprio tornaconto; ne traeva il suo reddito impedendo loro di agire liberamente [...] Il XIV secolo registrò la creazione di un monopolio così potente a vantaggio delle Città Stato italiane [...] che gli embrioni degli Stati territoriali come Inghilterra, Francia e Spagna necessariamente ne soffrirono le conseguenze.”
A questo si aggiunga l’intervento di Venezia per impedire che Alfonso il Saggio succedesse a Federico II sul trono imperiale.
Il trionfo del liberismo e il soffocamento sul nascere degli Stati nazionali definisce il contesto della catastrofe del XIV secolo. Solo un secolo più tardi, quando il Rinascimento dette vita agli Stati nazionali, prima, quello di Luigi XI, in Francia, poi, in Inghilterra e in Spagna, la popolazione europea sarebbe riuscita a sottrarsi alla barbarie e alla involuzione demografica.

[2] La differenza fondamentale tra allora e ora è che allora non esistevano gli Stati nazionali. Non vi era un Governo potenzialmente in grado di sottoporre il sistema bancario a una radicale riorganizzazione, salvaguardando, al tempo stesso, la produzione reale con nuove, esclusive emissioni di credito, mentre questo sarebbe, oggi, possibile, qualora si riuscisse a esercitare pienamente la Sovranità nazionale. Allora questa via di scampo non esisteva e, di conseguenza, la popolazione finì per essere decimata. Si calcola che nel periodo, che va tra il 1300 e il 1450, la popolazione europea si ridusse del 35-50%, mentre quella mondiale si ridusse del 25%.

[3] Jerry Z. Muller, Adam Smith in his time and ours: Designing the Decent Society.

[4] Financial Times, 5 maggio 1993.
 
[5] 15 Andarono intanto a Gerusalemme. Ed entrato nel tempio, si mise a scacciare quelli che vendevano e comperavano nel tempio; rovesciò i tavoli dei cambiavalute e le sedie dei venditori di colombe 16 e non permetteva che si portassero cose attraverso il tempio. 17 Ed insegnava loro dicendo: “Non sta forse scritto: La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le genti? Voi invece ne avete fatto una spelonca di ladri.”
18 L’udirono i sommi sacerdoti e gli scribi e cercavano il modo di farlo morire. Avevano infatti paura di lui, perché tutto il popolo era ammirato del suo insegnamento. 19 Quando venne la sera uscirono dalla città.”
Vangelo secondo Marco 11,15-19

12 Gesù entrò poi nel tempio e scacciò tutti quelli che vi trovò a comprare e a vendere; rovesciò i tavoli dei cambiavalute e le sedie dei venditori di colombe 13 e disse loro: “La Scrittura dice: La mia casa sarà chiamata casa di preghiera ma voi ne fate una spelonca di ladri.”
14 Gli si avvicinarono ciechi e storpi nel tempio ed egli li guarì. 15 Ma i sommi sacerdoti e gli scribi, vedendo le meraviglie che faceva e i fanciulli che acclamavano nel tempio: “Osanna al figlio di Davide”, si sdegnarono 16 e gli dissero: “Non senti quello che dicono?” Gesù rispose loro: “Sì, non avete mai letto: Dalla bocca dei bambini e dei lattanti ti sei procurata una lode?”
17 E, lasciatili, uscì fuori dalla città, verso Betània, e là trascorse la notte.”
Vangelo secondo Matteo 21,12-17

“45 Entrato poi nel tempio, cominciò a cacciare i venditori, 46 dicendo: “Sta scritto: La mia casa sarà casa di preghiera. Ma voi ne avete fatto una spelonca di ladri!”
47 Ogni giorno insegnava nel tempio. I sommi sacerdoti e gli scribi cercavano di farlo perire e così anche i notabili del popolo; 48 ma non sapevano come fare, perché tutto il popolo pendeva dalle sue parole.”
Vangelo secondo Luca, 19,45-48


[6] 17Mentre andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?” 18Gesù gli disse: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. 19Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre.” 20Egli allora gli disse: “Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza.” 21Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: “Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!” 22Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni.

23Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: “Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!” 24I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro: “Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! 25È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio.” 26Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: “E chi può essere salvato?” 27Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: “Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio.”
28Pietro allora prese a dirgli: “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito.” 29Gesù gli rispose: “In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, 30che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà.”
Vangelo secondo Marco, 10, 17-30

[7] Ecclesiaste o Qoelet, 3, 1-9

[8] Libro di Siracide o Ecclesiatico, 31, 6

[9] Alchimista e mago, Heinrich Cornelius Agrippa di Nettesheim [1486-1535] riuscì a sfuggire all’Inquisizione. Nella sua opera più importante, De occulta philosophia, scritta nell’arco di circa venti anni, dal 1510 al 1530: la filosofia occulta è la magia, considerata “la vera scienza, la filosofia più elevata e perfetta, in una parola la perfezione e il compimento di tutte le scienze naturali”.
In De nobilitate et praeecelentia foeminei sexus [Nobiltà e preminenza del sesso femminile] Heinrich Cornelius Agrippa von Nettesheim sostiene la superiorità della donna rispetto all’uomo dal momento, afferma, che già il nome della prima donna, Eva, che significa vita, è più nobile di quello di Adamo, che vuol dire terra; anche l’essere stata creata dopo l’uomo è motivo di maggior perfezione e il corpo femminile, secondo lui, galleggia in acqua più facilmente. Inoltre, la donna è più eloquente e più giudiziosa tanto che “filosofi, matematici e dialettici, nelle loro divinazioni e precognizioni sono spesso inferiori alle donne di campagna e molte volte una semplice vecchietta ne sa più di un medico”. Con il difendere la dignità delle donne, aveva espresso la sua adesione a una corrente, avviata circa un secolo prima, che, a buon diritto, si può definire “femminista” ante litteram, di cui si trovano tracce in Francia e alla corte di Borgogna [Christine de Pizan], ma anche in Spagna [Juan Rodríguez del Padrón] e in Italia, rivendicando per loro i diritti alla istruzione e alla libera attività professionale, ovvero alla conoscenza e alla indipendenza economica: “Ma prevalendo la licenziosa tirannia degli uomini sulla giustizia divina e sulla legge naturale, la libertà accordata alle donne è oggi loro interdetta da leggi inique, soppressa dalla consuetudine e dalle usanze e totalmente cancellata fin dall’educazione, perché la femmina appena nata e nei primi anni di vita è tenuta in casa nell’ozio, e, quasi che ella non sia adatta a più alte occupazioni, non le è permesso nient’altro che badare all’ago e al filo; quando sarà giunta all’età del matrimonio sarà affidata alla forza e alla gelosia del marito, oppure sarà rinchiusa nella perpetua prigione di un monastero di monache. Tutti gli uffici pubblici le sono proibiti dalle leggi. Non le è concesso di intentare un’azione legale malgrado sia prudentissima. Inoltre è esclusa dal giudicare, dagli arbitrati, dall’adozione, dalla intercessione, dalla procura, dalla tutela, dalla cura, dalle cause criminali e testamentarie. E pure le è vietato di predicare la parola di Dio, il che è assolutamente contrario alle scritture.”

[10] President John F. Kennedy
Waldorf-Astoria Hotel, New York City
April 27, 1961
Mr. Chairman, ladies and gentlemen:
I appreciate very much your generous invitation to be here tonight.
You bear heavy responsibilities these days and an article I read some time ago reminded me of how particularly heavily the burdens of present day events bear upon your profession.
You may remember that in 1851 the New York Herald Tribune under the sponsorship and publishing of Horace Greeley, employed as its London correspondent an obscure journalist by the name of Karl Marx.
We are told that foreign correspondent Marx, stone broke, and with a family ill and undernourished, constantly appealed to Greeley and managing editor Charles Dana for an increase in his munificent salary of $5 per instalment, a salary which he and Engels ungratefully labelled as the “lousiest petty bourgeois cheating.”
But when all his financial appeals were refused, Marx looked around for other means of livelihood and fame, eventually terminating his relationship with the Tribune and devoting his talents full time to the cause that would bequeath the world the seeds of Leninism, Stalinism, revolution and the cold war.
If only this capitalistic New York newspaper had treated him more kindly; if only Marx had remained a foreign correspondent, history might have been different. And I hope all publishers will bear this lesson in mind the next time they receive a poverty-stricken appeal for a small increase in the expense account from an obscure newspaper man.
I have selected as the title of my remarks tonight “The President and the Press.” Some may suggest that this would be more naturally worded “The President Versus the Press.” But those are not my sentiments tonight.
It is true, however, that when a well-known diplomat from another country demanded recently that our State Department repudiate certain newspaper attacks on his colleague it was unnecessary for us to reply that this Administration was not responsible for the press, for the press had already made it clear that it was not responsible for this Administration.
Nevertheless, my purpose here tonight is not to deliver the usual assault on the so-called one party press. On the contrary, in recent months I have rarely heard any complaints about political bias in the press except from a few Republicans. Nor is it my purpose tonight to discuss or defend the televising of Presidential press conferences. I think it is highly beneficial to have some 20,000,000 Americans regularly sit in on these conferences to observe, if I may say so, the incisive, the intelligent and the courteous qualities displayed by your Washington correspondents.
Nor, finally, are these remarks intended to examine the proper degree of privacy which the press should allow to any President and his family.
If in the last few months your White House reporters and photographers have been attending church services with regularity, that has surely done them no harm.
On the other hand, I realize that your staff and wire service photographers may be complaining that they do not enjoy the same green privileges at the local golf courses that they once did.
It is true that my predecessor did not object as I do to pictures of one’s golfing skill in action. But neither on the other hand did he ever bean a Secret Service man.
My topic tonight is a more sober one of concern to publishers as well as editors.
I want to talk about our common responsibilities in the face of a common danger. The events of recent weeks may have helped to illuminate that challenge for some; but the dimensions of its threat have loomed large on the horizon for many years. Whatever our hopes may be for the future - for reducing this threat or living with it - there is no escaping either the gravity or the totality of its challenge to our survival and to our security - a challenge that confronts us in unaccustomed ways in every sphere of human activity.
This deadly challenge imposes upon our society two requirements of direct concern both to the press and to the President - two requirements that may seem almost contradictory in tone, but which must be reconciled and fulfilled if we are to meet this national peril. I refer, first, to the need for a far greater public information; and, second, to the need for far greater official secrecy.

I
The very word “secrecy” is repugnant in a free and open society; and we are as a people inherently and historically opposed to secret societies, to secret oaths and to secret proceedings. We decided long ago that the dangers of excessive and unwarranted concealment of pertinent facts far outweighed the dangers which are cited to justify it. Even today, there is little value in opposing the threat of a closed society by imitating its arbitrary restrictions. Even today, there is little value in insuring the survival of our nation if our traditions do not survive with it. And there is very grave danger that an announced need for increased security will be seized upon by those anxious to expand its meaning to the very limits of official censorship and concealment. That I do not intend to permit to the extent that it is in my control. And no official of my Administration, whether his rank is high or low, civilian or military, should interpret my words here tonight as an excuse to censor the news, to stifle dissent, to cover up our mistakes or to withhold from the press and the public the facts they deserve to know.
But I do ask every publisher, every editor, and every newsman in the nation to reexamine his own standards, and to recognize the nature of our country’s peril. In time of war, the government and the press have customarily joined in an effort based largely on self-discipline, to prevent unauthorized disclosures to the enemy. In time of “clear and present danger,” the courts have held that even the privileged rights of the First Amendment must yield to the public’s need for national security.
Today no war has been declared - and however fierce the struggle may be, it may never be declared in the traditional fashion. Our way of life is under attack. Those who make themselves our enemy are advancing around the globe. The survival of our friends is in danger. And yet no war has been declared, no borders have been crossed by marching troops, no missiles have been fired.
If the press is awaiting a declaration of war before it imposes the self-discipline of combat conditions, then I can only say that no war ever posed a greater threat to our security. If you are awaiting a finding of “clear and present danger,” then I can only say that the danger has never been more clear and its presence has never been more imminent.
It requires a change in outlook, a change in tactics, a change in missions - by the government, by the people, by every businessman or labor leader, and by every newspaper. For we are opposed around the world by a monolithic and ruthless conspiracy that relies primarily on covert means for expanding its sphere of influence - on infiltration instead of invasion, on subversion instead of elections, on intimidation instead of free choice, on guerrillas by night instead of armies by day. It is a system which has conscripted vast human and material resources into the building of a tightly knit, highly efficient machine that combines military, diplomatic, intelligence, economic, scientific and political operations.
Its preparations are concealed, not published. Its mistakes are buried, not headlined. Its dissenters are silenced, not praised. No expenditure is questioned, no rumor is printed, no secret is revealed. It conducts the Cold War, in short, with a war-time discipline no democracy would ever hope or wish to match.
Nevertheless, every democracy recognizes the necessary restraints of national security - and the question remains whether those restraints need to be more strictly observed if we are to oppose this kind of attack as well as outright invasion.
For the facts of the matter are that this nation’s foes have openly boasted of acquiring through our newspapers information they would otherwise hire agents to acquire through theft, bribery or espionage; that details of this nation’s covert preparations to counter the enemy’s covert operations have been available to every newspaper reader, friend and foe alike; that the size, the strength, the location and the nature of our forces and weapons, and our plans and strategy for their use, have all been pinpointed in the press and other news media to a degree sufficient to satisfy any foreign power; and that, in at least in one case, the publication of details concerning a secret mechanism whereby satellites were followed required its alteration at the expense of considerable time and money.
The newspapers which printed these stories were loyal, patriotic, responsible and well-meaning. Had we been engaged in open warfare, they undoubtedly would not have published such items. But in the absence of open warfare, they recognized only the tests of journalism and not the tests of national security. And my question tonight is whether additional tests should not now be adopted.
The question is for you alone to answer. No public official should answer it for you. No governmental plan should impose its restraints against your will. But I would be failing in my duty to the nation, in considering all of the responsibilities that we now bear and all of the means at hand to meet those responsibilities, if I did not commend this problem to your attention, and urge its thoughtful consideration.
On many earlier occasions, I have said - and your newspapers have constantly said - that these are times that appeal to every citizen’s sense of sacrifice and self-discipline. They call out to every citizen to weigh his rights and comforts against his obligations to the common good. I cannot now believe that those citizens who serve in the newspaper business consider themselves exempt from that appeal.
I have no intention of establishing a new Office of War Information to govern the flow of news. I am not suggesting any new forms of censorship or any new types of security classifications. I have no easy answer to the dilemma that I have posed, and would not seek to impose it if I had one. But I am asking the members of the newspaper profession and the industry in this country to re-examine their own responsibilities, to consider the degree and the nature of the present danger, and to heed the duty of self-restraint which that danger imposes upon us all.
Every newspaper now asks itself, with respect to every story: “Is it news?” All I suggest is that you add the question: “Is it in the interest of the national security?” And I hope that every group in America - unions and businessmen and public officials at every level - will ask the same question of their endeavors, and subject their actions to the same exacting tests.
And should the press of America consider and recommend the voluntary assumption of specific new steps or machinery, I can assure you that we will cooperate whole-heartedly with those recommendations.
Perhaps there will be no recommendations. Perhaps there is no answer to the dilemma faced by a free and open society in a cold and secret war. In times of peace, any discussion of this subject, and any action that results, are both painful and without precedent. But this is a time of peace and peril which knows no precedent in history.

II
It is the unprecedented nature of this challenge that also gives rise to your second obligation - an obligation which I share. And that is our obligation to inform and alert the American people - to make certain that they possess all the facts that they need, and understand them as well - the perils, the prospects, the purposes of our program and the choices that we face.
No President should fear public scrutiny of his program. For from that scrutiny comes understanding; and from that understanding comes support or opposition. And both are necessary. I am not asking your newspapers to support the Administration, but I am asking your help in the tremendous task of informing and alerting the American people. For I have complete confidence in the response and dedication of our citizens whenever they are fully informed.
I not only could not stifle controversy among your readers - I welcome it. This Administration intends to be candid about its errors; for as a wise man once said: “An error does not become a mistake until you refuse to correct it.” We intend to accept full responsibility for our errors; and we expect you to point them out when we miss them.
Without debate, without criticism, no Administration and no country can succeed - and no republic can survive. That is why the Athenian lawmaker Solon decreed it a crime for any citizen to shrink from controversy. And that is why our press was protected by the First Amendment - the only business in America specifically protected by the Constitution - not primarily to amuse and entertain, not to emphasize the trivial and the sentimental, not to simply “give the public what it wants” - but to inform, to arouse, to reflect, to state our dangers and our opportunities, to indicate our crises and our choices, to lead, mold, educate and sometimes even anger public opinion.
This means greater coverage and analysis of international news - for it is no longer far away and foreign but close at hand and local. It means greater attention to improved understanding of the news as well as improved transmission. And it means, finally, that government at all levels, must meet its obligation to provide you with the fullest possible information outside the narrowest limits of national security - and we intend to do it.

III
It was early in the Seventeenth Century that Francis Bacon remarked on three recent inventions already transforming the world: the compass, gunpowder and the printing press. Now the links between the nations first forged by the compass have made us all citizens of the world, the hopes and threats of one becoming the hopes and threats of us all. In that one world’s efforts to live together, the evolution of gunpowder to its ultimate limit has warned mankind of the terrible consequences of failure.
And so it is to the printing press - to the recorder of man’s deeds, the keeper of his conscience, the courier of his news - that we look for strength and assistance, confident that with your help man will be what he was born to be: free and independent.
http://www.youtube.com/watch?v=AKhUbOxM2ik

[11] “Non è stato donnaiolo, non ha mai giocato, è agli antipodi di ogni eleganza, la sua frugalità rassomiglia da vicino all’ avarizia.”,
così veniva descritto sul Corriere della Sera del 20-21 gennaio 1893 il settantatreenne Bernardo Tanlongo [http://archiviostorico.corriere.it/2004/febbraio/08/abominevole_Tanlongo_crac_della_Banca_co_9_040208093.shtml].


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